Dal 17 Gennaio al 12 Febbraio 2017
Giuseppe Verdi
Dramma lirico in cinque atti
Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Traduzione italiana di Achille De Lauzières
e Angelo Zanardini
(Edizione integrale della versione in 5 atti,
a cura di U. Günther e L. Petazzoni;
Editore Casa Ricordi, Milano)
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione del Festival di Salisburgo
Durata spettacolo: 05 ore e 10 minuti inclusi intervalli
Direttore | Myung-Whun Chung |
Regia | Peter Stein |
Scene | Ferdinand Woegerbauer |
Costumi | Anna Maria Heinreich |
Luci | Joachim Barth |
CAST |
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Elisabetta di Valois | Krassimira Stoyanova |
La principessa Eboli | Ekaterina Semenchuk |
Don Carlo | Francesco Meli |
Rodrigo | Simone Piazzola |
Filippo II | Ferruccio Furlanetto |
Il Grande Inquisitore | Eric Halfvarson (17, 22, 26 gennaio)
Orlin Anastassov |
Un frate | Martin Summer* |
Voce dal cielo | Céline Mellon* |
Sei deputati fiamminghi | Gustavo Castillo* Rocco Cavalluzzi* Dongho Kim* Victor Sporyshev* Chen Lingjie** Paolo Ingrasciotta* |
Conte di Lerma/Un araldo reale | Azer Zada* |
Tebaldo | Theresa Zisser |
*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala
**Allievo del Conservatorio “Giuseppe Verdi”
Per motivi di salute Orlin Anastassov è costretto a ritirarsi dalle prime tre recite di Don Carlo, Eric Halfvarson canterà quindi il ruolo di Grande Inquisitore nelle recite del 17, 22 e 26 gennaio.
Serata strana per un’opera che amo molto.
Stein meglio del solito. Solisti mediamente bravi.
Dalla dedizione con cui dirige, si vede palesemente che Chung ama Verdi. Temo che sia un amore non corrisposto. A intuizioni bellissime si inanellano palesi incapacità ad accompagnare i solisti. E scollature tremende col coro.
Siamo comunque su un altro pianeta rispetto al grigiore soffocante del direttore della «Madama Butterfly» del mese scorso.
Un milanese doc mi ha detto che le prove son state infuocate e rissose, e questo sarebbe il motivo per cui sia Casoni sia Stein si sono rifiutati di comparire ai calorosi saluti finali (cosa che lì per lì ha stupito anche me, e che ho trovato maleducatissima).
Le “palesi incapacità” forse andrebbero argomentate: a me par sia stata una direzione straordinaria, raffinata (Canzone del velo), mai volgare, con momenti di orchestrazione stupendi (L’autodafé ma non solo), poetici (il duetto finale tra Elisabetta e Carlo), di intensa drammaticità (fenomenale il duetto Filippo -Inquisitore).
Qualsiasi cosa sia successa, meritata l’ovazione per Chung.
L’esempio più evidente mi è parso l’accompagnamento al finale dell’O don fatale: lei che cerca di accelerare perché ha avuto una presa di fiato scorretta e lui che tiene imperterrito il suo tempo mandando tutto in vacca (e sono arrivati i buu).
Identico doppio tempo alla frase Il pianto mio in Ti che le vanità, dove la Stoyanova regge per un pelo.
Non parliamo poi del finale del quarto atto, dove il coro interno (Feriam!) sballa di una battuta.
E vogliamo parlare dell’attacco dell’opera, in cui la fila degli archi totalmente lasciata a se stessa non riesce a eseguire le acciaccature insieme? Idem all’introduzione di Ella giammai m’amò.
Non proseguo, caro Paggio. Ciò detto anche io ho amato certi passaggi.
Certo che, ripeto, dopo la «Madama Butterfly» una direzione così sembra sensazionale. Però in assoluto. non esagererei, ecco.
A parte che succede spesso alle prime che si arrivi non completamente a punto, trovo che Chung sia ancora uno dei pochi direttori giustamente non incline a eccessi di diplomazia.
Che la mancata presenza del maestro del coro derivi da qualche rilievo fatto dal maestro?
Prima di una presa di fiato scorretta cui il direttore provvidenzialmente va dietro c’è una linea interpretativa, ma qui rientriamo in cosa si ritiene venga prima, se il canto o la direzione.
In ogni caso, non direi proprio che tra Chung e Verdi sia amore non corrisposto… un Chung su Verdi ogni anno e io sarei già felice.
Sono d’accordo in buona parte con Romano; dopo l’atto di Fontainebleu che mi ha un po’ sconcertato come direzione (in particolare l’attacco iniziale), il resto mi è sembrato raffinato e frutto di un autentico amore per Verdi. Sulle scollature fra coro, solisti e orchestra penso sia solo una questione di non essere arrivati pronti alla prima, bisogna tornare fra qualche replica secondo me. La regia invece non mi è piaciuta, più che minimalista mi è sembrata la regia di uno a cui hanno tagliato i fondi per realizzarla (e in qualche momento anche le idee…). Persino gli interpreti ne hanno risentito, spesso sembravano spaesati e non nella parte. Nonostante questo, secondo me basta molto poco perché diventi una buona edizione del Don Carlo in 5 atti, ma quel poco è necessario e spero proprio che arrivi in fretta. Attilia
P.S. non ho capito i buu alla Semenchuk, e voi?
I soliti poveretti che invece di gustarsi le numerose raffinatezze di questa edizione DEVONO trovare una qualsiasi ragione (era totalmente inespressiva) per dare conto della loro presenza a teatro.
Una prece.
Mi riferivo ai buu ovviamente!
trovo molto interessante il dibattito che si è aperto. ero in platea causa influenza di una amica.
anch’io come Romano sono immediatamente stata portata a fare un confronto con la Butterfly.
Chailly: tutto calcolato, tutto inerte, tutto impacchettato, tutto falso.
Chung: tutto vissuto, tutto viscerale, tutto arrischiato, tutto temerario.
credo che qui gli animi si possano certamente dividere, anche se sia Romano, sia Attilia, sia il Paggio convergono nel preferire la seconda modalità alla prima.
anche io. pur non nascondendo le molte imperfezioni della serata di ieri. ma c’era vita, c’era voglia di esprimere Verdi non di farci una lezioncina su Puccini, c’era senso del teatro, c’era verità di sentimenti.
e lo si è visto in due reazioni. l’orchestra, che ha applaudito al termine Chung con almeno il triplo dell’entusiasmo solitamente riservato al suo burocratico direttore principale. il pubblico, che pur cosciente di tante cose che palesemente non quadravano ha espresso un’ovazione di gratitudine per un artista che non si risparmia e non recita.
e consentitemi un ultimo nota bene da ex studentessa di conservatorio: mando un abbraccio a Monte De Fez, che sta contribuendo a trasformare la sezione dei corni scaligeri in una delle più sicure e autorevoli d’Italia. ieri sera maiuscoli.
Sì davvero, corni bravi. Se non è un’eccezione ma il risultato di un percorso non possiamo che gioirne perché erano davvero il punto debole dell’orchestra.
salve a tutti, qualcuno sa dirmi gentilmente gli orari della fila di venerdì per la CSO? grazie in anticipo
Dal sito del teatro:
CHICAGO SYMPHONY ORCHESTRA-R.MUTI – 20, 21 GENNAIO 2017 ORE 20
Compilazione della lista ore 13
Consegna contromarche ore 17
Vendita dei 140 posti ore 17.30
Ah, un’ultima cosa. All’inizio dell’opera il cantante che ha interpretato il boscaiolo è stato bravissimo. Peccato che la locandina non faccia cenno a questo personaggio. Complimenti alla direzione artistica/musicale per l’ennesima chicca di superficialità e ignoranza.
anch’io ho notato questa dimenticanza cretina…. e pensare che nell’ultima edizione in cinque atti del 1977 il boscaiolo o corifeo era stato il grandissimo e indimenticabile Luigi De Corato!!…..
Forse chi dirige la Scala dal dpo-Muti non ne conosce affatto la tradizione?
Un Don Carlo da molto buono ad eccellente sul piano musicale. Inutile, inerte su quello scenico.
Togliamoci subito il dente e il dolore. Peter Stein non eguaglia qui i disastri di Aida e Il Flauto Magico. Il suo Don Carlo si può guardare, ha una funzionalità ma è espressione di una creatività (anzi non-creatività) ormai inerte e ripiegata sulla continua autocitazione: le scene di questo Don Carlo, quelle del Flauto, quelle di Aida sono praticamente intercambiabili. Chi assiste non riceve uno, che sia uno, stimolo sul piano intellettivo od emozionale. Teatro povero? Sì, di idee. Certo, non si arriva all’horror dei nudi in graticola del famigerato spettacolo di Zeffirelli. Ma è il nulla, o quasi. Che la dirigenza scaligera scelga di importare tale nullità conferma, dopo la pure inerte Butterfly, che l’attuale Scala è attualmente, e per l’appunto un teatro pavido nelle scelte artistiche. Ormai ampiamente sorpassato, su questo piano, da altri, e ben più vivi, luoghi italiani di teatro d’opera.
Per fortuna, i sono Chung e il cast. Il Maestro coreano firma un Don Carlo intensissimo, tutto rivestito del tipico suono “azzurrato” di questo direttore, fin da subito: la sua Fontainebleau è un luogo di azzurra neve invernale, nel quale inizia a consumarsi l’amore e la rinuncia dei protagonisti. Poi, dice Chung, Don Carlo è l’opera di Verdi nella quale la parola “Dio” è più presente. E nella intima, profonda lettura, in quei suoni rarefatti, nell’anelito di un amore che non può realizzarsi, nella disperata incomunicabilità fra Filippo e il resto del mondo, nel peso del potere che si fa suono (memorabile Chung nel duetto Filippo-Inquisitore, quel rantolo terribile dei bassi!). In tutto questo, anzi, sopra tutto questo, sta e governa, un Dio presente-assente. Il pur laico Verdi ha fatto qui la sua opera “su Dio”. E Chung la ricrea da vero successore spirituale (nonché allievo) del direttore-sacerdote, grandissimo, che di Don Carlo (e del Don Carlo in cinque atti) fu eccelso interprete: Carlo Maria Giulini, di cui in questa lettura di Chung emerge l’ombra, l’immagine, il ricordo, sia pur rivissuti nella musicalità più stilizzata e rarefatta del coreano e nella diversità del suono. E Chung, dopo il dimenticabile allestimento Muti-Zeffirelli, firma un Don Carlo che ci riporta, per profondità di pensiero ed anima, al ricordo di quello storico scaligero di Claudio Abbado.
Un altro aspetto non sempre sottolineato dagli interpreti di Don Carlo, qui invece sì, è che si tratta di un’opera immersa nella natura, permeata di natura: abbiamo detto dell’atto di Fontainebleau. Aggiungiamo il canto degli uccelli nei giardini di Spagna, che rende memorabile, con Chung, l’ambientazione della canzon del Velo.
E poi, certo, c’è il Don Carlo dei rapporti e non-rapporti umani, dell’odio e dell’amore, dei rapporti di potere. Ci vuole un grande cast per esprimere tutto questo, e alla Scala c’è. Furlanetto è memorabile di gesto ed espressione: forse la voce non è più, per intero, quella di un basso puro, ma il personaggio è assunto in toto: “è” Filippo, e la gestualità strepitosa nell’Ella giammai m’amò, il semplice elevarsi di una mano, il passo e la postura ne sono immagine, tutt’uno con il canto espressivo (sospettiamo sia merito specifico di Furlanetto più che del regista: il resto del cast non ha uguale “evidenza” scenica e di gesto). Quando la coppia Meli-Stoyanova (Don Carlo-Elisabetta) canta insieme, si realizza con la direzione di Chung una “comunione di spiriti” che è forse il dato più bello e commovente di questo Don Carlo. Sia il tenore sia il soprano sono eccelsi fraseggiatori: a cercare il pelo nell’uovo, qualche consueta fatica in acuto di lui, e il suono improvvisamente “rimpicciolito” di lei nel “Tu che la Vanità”, peraltro cantato benissimo. Ma sono coppia di altissimo livello (il Don Carlo della nostra vita, in coincidenza di immagine e suono “verginali”- da “infante” di Spagna – resta Jose Carreras, ma Meli vola molto alto). La voce di Piazzola si è un filo assottigliata (dimagrimento fisico? Meglio qualche chilo in più, se così), ma il suo canto resta bellissimo e il suo Rodrigo, tenero e forte, “c’è” tutto. Rispetto a questi quattro straordinari cantanti-interpreti, la Eboli della Semenchuk si colloca su un piano di corretta normalità, ma quei “buuu” (partiti poi per fortuna tacitati) indirizzatigli alla prima erano completamente fuori luogo. E Halfvarson è un buon Inquisitore, in un Don Carlo di grande coerenza e unità musicale, cui è mancato solo il riscontro scenico di un allestimento più stimolante.
marco vizzardelli
INTANTO, A VENEZIA, UN GRANDE TANNHAUSER WELLBER-BIEITO
LA FENICE, OVE ANCORA SI CREA
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Con un Tannhauser straordinario in due elementi, la direzione di Omer Meir Wellber e lo spettacolo di Calixto Bieito, la Fenice di Venezia si conferma nel suo ruolo ormai preminente fra i teatri lirici d’Italia. C’è da dire che non è sola. E’ infatti confortante constatare che, in contemporanea con il Tannhasuer veneziano, altri due teatri , l’Opera di Roma e il Massimo di Palermo propongono allestimenti (Così Fan Tutte-Vick, e Macbeth-Emma Dante) fecondamente discutibili, vivi, tali da far pensare (magari anche ribellare o dissentire,ma va benissimo: è teatro vivo!) il pubblico. Il teatro morto o morente è invece quello che si affida, come tema-guida ormai costante, alla senescenza sterile di un Peter Stein nella sua peggior fase non-creativa, che anestetizza, per sfiducia nel pubblico e paura del dissenso, la creatività di un Hermanis riducendolo a produttore di inerti immagini da cartolina postale. Che vive di una ininterrotta celebrazione di vegliardi della musica. Meglio starne lontani.
La sintesi di gesti quasi senza scene di Bieito, la direzione fra lirico-eccitato (ed eccitante!) e febbrile di Omer Wellber danno vita ad un Tannhauser nel quale la tematica amor carnale-amore spirituale, ma di più, carne e spirito, fede sconfinante in misticismo dello spirito ma anche della carne (basta sfogliare qualche pagina di mistici, per capire), si imprimono nell’occhio di chi vede e ascolta con una forza plastica, d’immagine, sonora – di musica, e grandissima musica – e con una forza di sentimento ed intelletto assolutamente sconvolgenti. Cammarano ha usato questo aggettivo per la canzone della stella, nella lettura di Wellber, e ha perfettamente ragione. E c’è tantissimo altro di sconvolgente, in immagini e musica. A partire da quel baccanale iniziale, con l’orchestra come sconvolta da fremiti e, sul, anzi “nel” palcoscenico-foresta (solo un regista eccelso può far sostenere ad un solo personaggio, poi due, il peso) la pazza, erotica corsa di Venere. Per proseguire con la tensione atroce, alla fine quasi insostenibile, del secondo atto: la doppia punizione di Tannhauser ed Elisabeth è attanagliante, e Wellber e Bieito, insieme, grandiosi. Ai colpi di flagello collettivi imposti ad Heinrich-Tannhauser corrispondono ritmo e suono dell’orchestra e alla punizione “carnale” imposta dai poeti ad Elisabeth per aver difeso lo stesso Heinrich corrisponde il suono allucinato ed erotico richiesto e ottenuto da Wellber con la duttile e partecipe orchestra. E’ grandissimo teatro in musica.
Chi conosce qualcosa della biografia, degli studi, degli interessi di Omer Wellber, sa della sua attenzione ai temi della fede, del rapporto fra umanità e divino. E’ di stringente logica il fatto che il suo primo approccio alle opere di Wagner avvenga con quella in cui fede e amore, spirito e carne, sono temi espressi con il massimo del paradosso. Per il quale Wellber ha trovato un suono e modalità espressive: la tensione allucinata dell’orchestra – anche quando lirica, distesa – rende tutto il paradosso di Tannhauser. E lo spettacolo di Bieito ne è l’esatto contraltare.
Il cast ha un punto debole e uno discutibile. L’idea di un Heinrich di stampo rude, selvatico, è coerente il questo spettacolo: ma il canto perennemente urlato, e a costante rischio-intonazione, di Stefan Vinke è sgradevole e mette a rischio (senza riuscirci, perché Wellber veglia) gli assieme. E la Venere di Ausrine Stundyte è efficacissima scenicamente ma sgraziata nel vocione. Sull’altro piatto della bilancia stanno il Wolfram trepido di Christoph Pohl e la forte Elisabeth di Liene Kinca, benissimo entrambi, in un Tannhauser che si impone, e impone il teatro La Fenice che lo ha co-prodotto, in pole position fra gli spettacoli di questo inverno 2016-17. Imperdibile (io, in ragionata fuga da Milano, ci torno altre due volte).
marco vizzardelli
Stasera Pertusi rimpiazza Furlanetto.
A casa adesso, dopo esser tornato stasera (cioé ormai ieri) a riascoltare e rivedere. Confermo quanto avevo già scritto (trovo Chung magnifico) con tre modifiche in meglio.
a) coro più preciso in corso di repliche
b) spettacolo Stein, rivisto con attenzione, ha una sua esattezza nei rapporti e nella drammaturgia. Resta di una essenzialità minimale a mio avviso diventata un cliché e ormai un po’ datata.
c) nel cast, detto (come da precedente intervento) dei bellissimi duetti Meli-Stoyanova tutt’uno con Chung, trovo sia da segnalare la bellissima appropriazione della parte, in canto gesti presenza, da parte di Simone Piazzola-Rodrigo. Ha nella voce, sempre rotonda, una nota di poesia che è di pochi. Il suo “Io morrò”, sostenuto da un Chung intimo e commosso, è stato direi sublime. Con Chung era stato un magnifico Simon Boccanegra a Venezia: c’è sicuramente un feeling di modi e di espressione. Simone ha voce di bellezza rara. La curi come un tesoro.
marco vizzardelli
Ho visto anch’io la replica dell’1/2. Due osservazioni:
– scene imbarazzanti che inducono irritazione nello spettatore predisponendolo ad un ascolto “nervoso”.
– Chung è bravo di suo però anche lui ,come la maggior parte dei suoi colleghi che l’hanno preceduto( pochissimi si salvano ) , cade nella trappola Verdi che, a mio avviso, è il compositore più difficile da eseguire. Non riesce cioè a rendere con la dovuta intensità passaggi “troppo” orecchiabili ,come ad esempio quello del duetto Meli/Piazzola che è poi il motivo conduttore dell’opera: abbastanza bene nel duetto ma superficiale e operettistico nelle riprese