Dal 31 Gennaio al 4 Febbraio 2016
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore | Bernard Haitink |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
Soprano | Camilla Tilling |
Baritono | Hanno Müller-Brachmann |
PROGRAMMA |
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Johannes Brahms | Ein deutsches Requiem op. 45 |
Adoro Bernard Haitink. Per il suo stile disadorno e caldo insieme, nel quale la musica sembra comporsi da sola, senza interventi interpretativi. Il che ovviamente non è vero, ma lascia che gli ingenui lo pensino. Come quegli stili letterari talmente classici da far pensare di essere facilmente imitabili; con risutati disastrosi per chi lo tenti.
Una battuta memorabile di Haitink: “Gli applausi fanno piacere, purtroppo c’è sempre qualcuno che urla ‘bravo’!”.
Fra i quaranta e quarantacinque anni fa ascoltai per le prime volte incisioni di Haitink. Il suo lutulento, magniloquente Mahler. Compositore che amo. Rimasi con un punto di domanda.
Fra i quindici e i venti anni fa, direi (non sono molto bravo con le cronologie) lo ascoltai dal vivo per la prima volta, con i Wiener Philarmoniker. Ottava di Bruckner, sinfonia che amo di un compositore che non amo. Maturai ciò che segue. Nel frattempo, i critici del Corriere della Sera si scioglievano in estasi, e non hanno più smesso.
Ho riascoltato Haitink stasera alla Scala, nel Requiem Tedesco, che amo anzi prediligo Ma si. Confermo quanto segue:
Chiedo scusa a Francesco Maria Colombo, a Girardi, ad altri che si prostrano. Ma sono uscito dalla Scala con nel cuore il pensiero “Ridatemi Giulini!! Dove sei, Carlo Maria, con il tuo sublime, commovente Requiem?”: lo scassamento provato stavolta pareggia e conferma quelli subìti in passato. Non pretendo di aver ragione. Ma proprio non fa per me
marco vizzardelli
E… TRE!
Dopo aver litigato per venti giorni (insulti finali in diretta mondiale inclusi) coi registi di “Giovanna d’Arco”.
Dopo aver cacciato Graham Vick sostituendolo all’ultimo con Robert Carsen (con esorbitanti costi per le casse del teatro) in vista de “La fanciulla del West”.
Siamo al terzo exploit consecutivo per quella sciagura autentica di nome Riccardo Chailly, la cui nomina a Direttore Primcipale si rivela ogni giorno più nefasta. Il regista previsto per il prossimo 7 dicembre (“Madama Butterfly”) ha alzato i tacchi quando – con inesistente senso del ridicolo – il maestro ha preteso di vedere prima il lavoro registico e poi giudicare se mandarlo in scena e conseguentemente pagarlo. Cioè tu lavori per mesi, costruisci le scene, cuci i costumi; poi sua maestà decide se gli va bene; qualora così non fosse non prendi manco un euro.
Chi può interrompa immediatamente questo schifo!!!
Ciao Zerbinetta. Non sono d’accordo. La responsabilità dello spettacolo è giusto che sia del direttore. Immagino che non abbia chiesto l’allestimento scenico, ma un progetto . D’altronde l’esistenza di un progetto è un prerequisito per accettare una fornitura.
-MV
D’accordissimo con te in linea generale. Ma allora si discute col regista fin da un paio di anni prima e si costruisce insieme la cosa, tanto più se si tratta di un’apertura di stagione della Scala.
In questo caso Chailly ha lasciato che Pereira commissionasse la regia a un suo (di Pereira) protetto italiano di talento. Poi a otto mesi dall’inizio delle prove è intervenuto di punto in bianco, peraltro entrando a gamba tesa anche a livello contrattuale.
A ogni modo tra i registi c’è già il passaparola che con questa linea chaillyiana in Scala è meglio non lavorare. Alla presentazione della prossima stagione ce ne renderemo conto scorrendo i nomi. E il ridicolo lo si sfiorerà proprio nella designazione del sostituto per “Madama Butterfly”.
Meditate, gente, meditate.
Chiedere conto e ragione a Michieletto, quello del Ballo in Maschera in cabina elettorale, quello che è stato fischiato al Royal Opera House per il Guglielmo Tell (da un pubblico che difficilmente dissente), quello che ha ambientato il Flauto magico in una scuola semi-fatiscente e così via, è doveroso.
Penso anche che sempre qualunque regista dovrebbe sottoporre il progetto registico al direttore artistico responsabile, nei tempi e modi dovuti.
Ben fatto ha il Maestro Chailly
Questa è la solita posizione retriva.
Michieletto è un regista con idee (a volte discutibili) che cozzano contro la visione statica di chi si ritiene una divinità da podio.
Abbiamo avuto pessime regie per tutta l’era di Muti.
Ora con Chailly si torna ancora più indietro, mentre il mondo è andato avanti di anni.
Complimenti, tenetevelo il vostro Chailly.
scusa MGL…. ma tra la noia preconfezionata di Chailly e le trovate genialoidi di Michieletto preferirò sempre queste ultime….. sottoscrivo parola per parola il giudizio di Zerbinetta e di Davide…..
Su questa cosa di Chailly, resto cauto. Attenzione Giovanna è stata contornata di gossip ma è andata bene. Per cui, prima di esprimermi, vedo almeno il nome del sostituto in Butterfly. Torno invece al topic:
Oggi su La Repubblica prima pagina interna della cronaca milanese (quindi non nazionale) un bel trafiletto di Angelo Foletto, nel quale spiega benissimo le “ragioni” di Haitink. E’ un bellissimo articolo e sono d’accordo con lui, salvo sulle conclusioni. Sono esattamente le ragioni che mi rendono Haitink indigesto. Come dicevo, non pretendo di aver ragione. ma non è il “mio” far musica. Però apprezzo lo scritto di Foletto
marco vizzardelli
Purtuttavia non concordo con Foletto quando accosta Blomstedt (formazione bernsteiniana e amertcana, non solo europea, e forte individualità) ad Haitink. Sono diversissimi, li abbiamo appena ascoltati entrambi
marco vizzardelli
Ho ascoltato ieri sera la terza recita del Deutsches Requiem diretto da Haitink. Tutti quelli che hanno sentito anche le precedenti erano d’accordo che quella di ieri è stata la migliore: cosa quasi ovvia, quando i sinfonici della Scala si fanno in tre serate, per le note ragioni.
L’ho trovata una interpretazione diversa da tutte quelle ascoltate in precedenza, dal vivo e in disco: volendo essere sintetici, agli antipodi di quella di Giulini, ma non per questo meno nobile nelle intenzioni o meno valida dal punto di vista esecutivo, almeno per quanto riguarda l’orchestra e soprattutto il coro. Confronti con i solisti di cui disponeva Giulini sarebbero vagamente canaglieschi: i tempi sono quello che sono.
Mi permetto di discostarmi un poco dalla conclusione di Foletto: intimistica e meditativa era secondo me la lettura di Giulini, non ho mai trovato in questa composizione un accento di preghiera.
Quella di Haitink, di grande energia a dispetto della veneranda età di questo grande direttore, mi è sembrata di tipo direi “innodico”, a parte la parola di Dio della quinta sezione, affidata credo non a caso alla voce solista femminile.
Il coro di Casoni è stato ancora una volta grande protagonista in una esecuzione molto lontana dal più consueto repertorio lirico italiano. Le sue imponenti dimensioni erano in linea con il taglio interpretativo complessivo. Senza errori mi è parsa anche la prestazione dell’orchestra, nella quale molti componenti eseguivano per la prima volta, almeno alla Scala, questa partitura solo apparentemente semplice e lineare.
Anche questa volta a Pereira è andata bene con le chiamate a raffica di grandi maestri alla vigilia del ritiro dal podio. Tocchiamo ferro per Georges Pretre il 22 febbraio.
Capisco Vizzardelli ed i motivi per cui Haitink non gli piace, allo stesso modo comprendo Ninci al quale, per gli stessi motivi, piace. Non mi è ben chiaro, invece, perchè questo Hatink “commuova” pletore di musicisti, giornalisti, critici. La commozione deriva da un evento emotivo e tutto mi appare nella conduzione musicale di Haitink (di tutta la sua vita musicale per come la conosco io, ossia, compreso il concerto di queste sere) presente, fuorchè l’emozione. Controllo, energia, realizzazione di idee sì. Emozione proprio no. Sono d’accordo con Baccalini: questo Requiem Tedesco, nell’idea musicale del direttore olandese, è, semplicemente, una raccolta di inni e tale è stata resa. Con proprietà, esattezza, asciuttezza, e vigore, all’occorrenza anche vibrante. Poche sfumature sia nella dinamica, costantemente impostata tra un mezzopiano e il fortissimo che nell’agogica, dato che una volta scelto il tempo questo era condotto in maniera piuttosto rigorosa (i rubati nelle chiese luterane non stanno di casa).
Insomma, Haitink non è stato una sorpresa. Allo stesso modo gli avevo ascoltato dirigere una Sesta di Mahler a Bolzano anni fa con la GMJO (o la ECYO non ricordo) e l’impostazione musicale era la stessa. Il suo Shostakovich in disco è così. Il suo Mahler in disco è così. Eccetera.
Insomma, la mia vita, come esperienza musicale, non mi è cambiata con l’ascolto di ieri sera.
Temirkanov mi cambia la vita (concerto sensazionale a Roma qualche giorno fa, tra parentesi) e mi emoziona. Haitink no.
Saluti
-MV
p.s. Haitink con Blomstedt non c’entra nulla. Zero.
in realtà l’unico Requiem Tedesco da me ascoltato dal vivo che sia paragonabile a quello di Karajan (che per me rimane l’interpretazione più emozionante) è stato quello di Pappano.
Giusto Davide. Pappano emoziona. Haitink no.
-MV
p.s. domanda: fa tanto chic emozionarsi con Haitink….?…..?…..?
pare…
Condivido quello che è stato scritto a proposito del Requiem Tedesco di Pappano. Io mi ero riferito a quelli di Giulini, perché per gli ascoltatori scaligeri il direttore più “idiomatico” per Brahms è stato lui, almeno negli ultimi trent’anni.
Quanto alle emozioni suscitate da Haitink, mi domando se il suo intento principale nell’affrontare il Requiem era quello. Piuttosto c’à da meravigliarsi se, come dice Max, alla vigilia del compimento dei suoi 87 anni, dirige ancora come molti anni fa.
Posso ricordare che or sono vent’anni morì il (per me) grandissimo Gianandrea Gavazzeni?
Lo voglio ricordare con la sua più bella registrazione discografica: https://www.youtube.com/watch?v=qBUJTIpkMqU.
Il catalettico concerto ascoltato martedì ha confermato quanto ascoltato dal vivo ed in disco negli ultimi ..nta anni (fate voi). Mi stupisco dello stupore.
Il giovinotto (come il sottoscritto, mi è permesso dirlo) ha questo approccio da sempre: ad una indubbia capacità tecnica associa un algido distacco verso tutto ciò che passa per la sua bacchetta. Se sia una lucida operazione intellettuale o altro si ricade nel campo del processo alle intenzioni ed in questo ci sono ministri di culto migliori del sottoscritto.
per farla breve non mi è facile capire come possa essere apprezzata una esecuzione principalmente caratterizzata da nessun scarto dinamico ed altrettante pochissime variazioni espressive e di tempo; i critici però si sono espressi in ben altri termini..sarò sordo.
In gioventù ricordo ad Amsterdam una 15 di DSCH davvero gelida: mi stupì la totale assenza di ironia, follia e surreale “russicità”. Riuscire a fare tutto questo rende questo direttore davvero unico
un saluto a Tutti
Non ho molto da aggiungere a Vono e a Zio Yakusidé, che mi sembrano aver reso bene l’idea. Quanto alla domandina malandrina di Vono se faccia tanto chic emozionarsi con Haitink, be’… una rispostina malandrina potrebbe essere che fa “tanto establishment”. Anche io capisco il parere di Ninci opposto al mio. Meno comprendo (e ne avevo fatto cenno nel precedente intervento) le “estasi” ufficiali. Mi fa specie che diversi comuni mortali siano restati freddi mentre “i critici” si sciolgono in lacrime di commozione. La domanda di Zio Yakusidé “sarò sordo?” è anche sulle mie labbra, a fronte di questi sdilinquimenti “critici”, ma lo tranquillizzerei. No, secondo me non siamo sordi. Per questo, forzando un po’ la realtà delle cose, ma proprio per render l’idea, ho inserito il celebre Villaggio della Corazzata Potemkin. Rende l’idea di chi sia un po’ scocciato dal dovere “ufficlal-critico” di parlar bene di Garibaldi.
marco vizzardelli
io direi che Haitink sta al Requiem Tedesco come Chailly sta a Rachmaninov……. mentre Blomstedt sta a Bruckner come Gatti sta a Šostakovic…….. è la differenza che passa tra i burocrati e i geni………
Approvo, lulù. Sono appena tornato da Reggio Emilia dove ieri sera, al Valli, Daniele Gatti e la Mahler Chamber hanno eseguito Sesta e Settima di Beethoven nel segno del genio.
marco vizzardelli
beato te Marco….. ci fai uno dei tuoi resoconti?……. t’invidio un po’…….
BEETHOVEN IN EMILIA ROMAGNA, CON GATTI E MARIOTTI
La via italiana a Beethoven vide a Roma (e Vienna) il “passaggio” storico di Claudio Abbado, nelle epocali esecuzioni lasciateci con i Berliner. Non è un caso che le bacchette del grande direttore siano passate, per sua volontà, nelle mani di Daniele Gatti e Michele Mariotti, cui, fra venerdì e il weekend, dobbiamo una straordinaria full-immersion in tre episodi nel sinfonismo beethoveniano. Sesta e settima venerdì a Reggio Emilia con Daniele Gatti e la Mahler Chamber (già orchestra “di” Abbado ora molto legata, fra altri, a Gatti). Nona sabato e (per chi qui scrive) domenica a Bologna con Michele Mariotti, orchestra e coro del Comunale, e Carmela Remigio, Veronica Simeoni, Michael Shade e Michele Pertusi solisti.
Con Gatti, nella tipica, felice libertà di spirito che lo caratterizza, siamo entrati in una sorta di “laboratorio-Beethoven”. La duttilità, la freschezza stessa del tipico suono terso e dei fraseggi aguzzi della Mahler Chamber, la curiosità interpretativa stessa e la trascendentale bravura strumentale consentono a Gatti di farsi forte del proprio magistero e della propria cultura, per “sperimentare”. Lo spirito dell’orchestra si sposa perfettamente con quello del direttore, in questa nuova tappa dell’integrale intrapresa insieme.
Allora abbiamo una Pastorale di inusitata rarefazione sonora, tale fin dall’inizio, con il disegno degli archi che si inarca leggerissimo. Rarefazione del suono, infiniti dettagli e – una costante, nel concerto di tempo – Beethoven riletto sul piano dei ritmi oltreché su quello delle dinamiche. Ogni movimento è in proporzione con gli altri e con il tutto, ma in maniera tutt’altro che convenzionale (soprattutto, e lo vedremo, nella Settima). Se il movimento iniziale della Sesta è, in un tempo piuttosto comodo, calibratissimo nelle dinamiche, il secondo – l’andante della “scena del ruscello” – è, sì, mosso, ma approda alle soglie del silenzio nella delicatezza del suono, il che non impedisce, anzi esalta, l’infinito baluginare di dettagli affidati ai legni. La forte accentuazione della danza dei contadini sfocia in un temporale che è tutto fuorché plateale, solo un moto dello spirito. Accenti, accenti marcatissimi anche nell’inno conclusivo, ma nopn è mai, la Pastorale di Gatti, “musica del corpo” o fisica, quanto dell’anima. Da sottolineare, in una resa esecutiva di altissimo livello, la sbalorditiva prova dei corni della Mahler, autentriche “voci”. La Settima è un salutare choc. “Apoteosi della danza”? Può pure darsi, ma sofisticatissima, verrebbe da dire “esperimenti di coreografia sonora”. Se il momento – sempre magico – della “nascita del tema” nel primo movimento è, di nuovo, con Gatti e la Mahler, una germinazione dal silenzio, l’Allegretto è ciò che il termine dice, non quell’ “andante tragico e con poco moto” cui tante esecuzioni ci hanno abituato. Non con Gatti: con lui è un enigmatico, asciutto, svelto disegno in punta di pannello, essenziale nella sonorità come nella scansione. C’è equilibrio perfetto nel Presto e relativo trio, ma è il preludio allo choc di cui facevamo cenno. Una scelta di tempo e di accenti, nel finale, quale nella vita avevamo ascoltato solo in una grandissima, eversiva ma geniale, Settima, dataci da Georges Pretre: accenti marcatissimi sulla base di un tempo comodo. Scelta alternativa rispetto alla tradizionale deflagrazione agogica e dinamica di mille e mille esecuzioni, peraltro imprtessionante nell’esito espressivo e nei rapporti – di disegno, di suono di scansione – di questo movimento con i tre che precedono. Lettura di un coraggio, e di una coerenza, sbalorditivi.
D’altronde, a noi, qui e oggi, tende a sfuggire, per abitudine d’ascolto, quale choc possa esser stato per i contemporanei il primo approccio con i più trascendentali esiti musicali di Beethoven. Tali sicuramente sono la Settima e la Nona. Della quale – pur ben piantato, in senso generale, in una tradizione nutrita di approcci italiani e non – Michele Mariotti, con orchestra e coro bolognesi tutt’uno con lui, ci ha dato una lettura, da un lato, di sbalorditiva padronanza (del testo, della tecnica), dall’altro di una tale, dirompente, forza drammatica e “strumentale”, emotiva ed ideale, da riportarci allo choc – di nuovo – che le prime esecuzioni (lo ricordava il progrtamma di sala) lasciarono in uditori che espressero pareri più stupefatti che immediatamente o facilmente ammirativi: tale la novità di quei “non più questi suoni”, e di tutta la sinfonia in re minore. Mariotti non è eversivo (lo era stato, invece, Dudamel con i suoi venezuelani, alla Scala questa estate), è tutto “nel testo” ma con una forza esecutiva e ideale che inchioda (il nostro vicino, al Comunale in quinta fila di platea, ci ha più volte fatto segno che… gli mancava il fiato dalla tensione impressa dal direttore pesarese) Vero.). E Mariotti dà e “si dà” alla Nona con tutta la sua forza ed il talento di un già grande direttore di teatro in musica. Sì che, fin dall’inizio – quell’altra “nascita della musica” – la tensione è portata ai limiti del sostenibile in un lungo cammino che avrà il suo logico traguardo nell’ urlo “Gott” del coro nel finale: di suo, ma vieppiù con Mariotti, “il” momento forse trascendentale in assoluto della Nona. Qui, nell’oro e argento della marcia con tenore, nel fugato che segue, l’esecuzione bolognese ha toccato forse i vertici, oro e fuoco. Anche Mariotti gioca sugli accenti, ma soprattutto sulla costruzione “drammaturgica” della Nona. Così il “plenum” del primo movimento è , sì, potente in se stesso quanto sappiamo, ma lo è vieppiù in quanto preparato con un senso, diremmo di “suspence” che connota un po’ tutta la lettura. C’è dramma e suspence nei colpi di timpano dello scherzo e nell’andata e ritorno dal trio allo scherzo medesimo. C’è nella condotta – anch’essa più “infiammata” del consueto, con la quale Mariotti legge l’adagio. C’è dramma – il dramma di “altri suoni” – massimamente nel finale: e davvero non appre un caso che il direttore si sia affidato (con esito felicissimo, e coerente con la lettura) ad un quartetto di solisti tutto “da opera”, composto per tre quarti (scelta non consueta, ma vincente) da cantanti italiani: di fatto, questo Beethoven “drammatico” emoziona e avvince con una forza d’urto tale da riportarci – probabilmente – alle sensazioni vissute dai primi che lo ascoltarono. Giovane (è giusto che lo sia, gli anni apporteranno altro) e maturo (le due caratteristiche di Mariotti) allo stesso tempo.
Ovazioni e un vero diluvio di fiori, in clima post-abbadiano di piacere intellettuale, a Reggio Emilia. Una quindicina di minuti di applausi, ritmati e non, euforia ed evidente dichiarazione d’amore al proprio direttore (subito dopo il memorabile Attila) domenica a Bologna, che dava inizio alle celebrazioni per i “suoi” 900 anni. Giornate “con Beethoven”, da ricordare.
marco vizzardelli