7 Giu

 

Luisa Miller

Giuseppe Verdi

Nuova produzione Teatro alla Scala

 Dal 6 al 23 Giugno 2012

Durata spettacolo: 2 ore e 55 minuti

Cantato in italiano con videolibretti in italiano, inglese

Luisa Miller
Basata sul dramma di Schiller, una storia opprimente, di sacrificio e di amore contrastato. Una vicenda intima e tormentata che apre la strada a Verdi per i grandi capolavori della maturità.
Mario Martone, dopo il successo di Pagliacci/Cavalleria rusticana della scorsa stagione, firma la regia di questa nuova produzione per il Teatro alla Scala.
Con Luisa Miller debutta alla Scala, come direttore d’opera, Gianandrea Noseda, direttore musicale del Teatro Regio di Torino e Chief Conductor della BBC Philharmonic.
Dirige un cast di grandi voci: Marcelo Álvarez (Rodolfo), Daniela Barcellona (Federica), Leo Nucci (Miller), Elena Mosuc (Luisa).

Direzione

Direttore  Gianandrea Noseda Daniele Rustioni (21)
Regia  Mario Martone
Scene  Sergio Tramonti
Costumi  Ursula Patzak
Luci  Pasquale Mari
Cast
Il conte di Walter 
Vitalij Kowaljow (6, 9, 12, 15, 18, 23) Orlin Anastassov (8, 11, 21)
Rodolfo  
Marcelo Álvarez (6, 9, 12, 15, 18, 23) Piero Pretti (8, 11, 21)
Federica   
Daniela Barcellona (6, 9, 12, 15, 18, 23) Barbara Di Castri  (8, 11, 21)
Wurm
Kwangchul Youn (6, 9, 12, 15, 18, 23) Marco Spotti (8, 11, 21)
Miller
Leo Nucci  (6, 9, 12, 15, 18, 23) Vitaliy Bilyy (8, 11, 21)
Luisa
Elena Mosuc (6, 9, 12, 15, 18, 23) Tamar Iveri (8, 11, 21)
Laura
Valeria Tornatore
Un contadino
Jihan Shin

21 Risposte to “”

  1. checcoscaligero giugno 7, 2012 a 7:16 am #

    news dalla buca d’orchestra:
    torno a scrivere su questo blog dopo tanto tempo e lo faccio volentieri nel post dedicato a luisa miller:
    ieri sera successo pieno per questa bella produzione, evviva!
    il cast è finalmente adeguato e omogeneo (e avere nei ruoli secondari di Wurm e Federica 2 grandi voci è un vero lusso, e mi auguro che in futuro si prosegua su questa strada!), Alvarez e Mosuc eccellenti e l’immarcescibile Nucci , oltre alla consueta strepitosa interpretazione attoriale, sfodera un labebolle strepitoso al termine della prima cabaletta: il grande Leo è come il buon vino!
    Noseda coglie pienamente l’anima della musica del primo verdi, e dimostra una grande sapienza nel condurre il palcoscenico e l’orchestra. conosco giananadrea sin dai tempi del conservatorio e sono molto felice che ieri sia stato ben accolto il suo debutto operistico scaligero (in filarmonica debuttò qualche anno fa, con buon esito anche allora).
    l’allestimento non lo vedo granché dalla mia posizione in orchestra, ma da quello che ho intravisto mi pare che Martone si dimostri (come già in Cavalleria e Pagliacci) un artista capace e sensibile, e che riesca a fare un teatro di “regia di ispirazione mitteleuropea”, ma di gusto italiano.
    secondo me il miglior allestimento verdiano dell’era Lissner, e speriamo sia un buon segnale per il 2013…

    ciao a tutti voi e un saluto speciale a attillia, che mi ha appunto fatto tornare la voglia di scrivere in questo blog evocandomi in qualche commento fa (non avevo più scritto poiché oltre alla nascita della mia splendida bimba, ero e sono tuttora anche molto occupato con il mio ruolo sindacale in teatro, e immagino capirete quanto sia complicata la situazione in questo periodo: ma di questo preferirei non parlare troppo in questo luogo…)

    W VERDI!

  2. marco vizzardelli giugno 7, 2012 a 2:16 PM #

    W VERDI!

    Condivido! Ottima riuscita. Non è uno spettacolo perfetto, ma è di meglio. E’ uno spettacolo “interessante” nel miglior senso: cioé, avvincente sotto molti punti di vista.
    Il tutto – cioé l’esito molto buono nel suo complesso – si riassume, prima di tutto, nell’eccellente direzione di Gianandrea Noseda, che vantava già a Torino, buonissimi esiti verdiani (Vespri, Traviata) e ha, di Verdi, il senso di tutto: musica e teatro, parola e musica. Ha fatto un lavoro splendido, in orchestra, con i cantanti e “sui” cantanti, nonché con il coro. Voci e suoni. Ha, come si dice, “ottimizzato” le voci. La prova più lampante è Nucci (meritp anche di martone): qui, a mio avviso, alla sua prova più alta da molti anni a questa parte, proprio perché completamente libero dai “nuccismi”: i vezzi vocali e scenici. Qui è asciuttissimo, scenicamente e vocalmente. Non caracolla per il palco, e canta “pulito”, asciutto: e benissimo. Il labemolle è strepitoso, e non è la sola cosa. L’uso delle dinamiche che Noseda gli chiede e ottiene è fenomenale. La voce sarà anche un po’ prosciugata negli armonici ma ha una salute incredibile e, usata come ha fatto qui, cioé allo stato puro, senza vezzi di mestiere, è mille volte meglio che nei tanti Rigoletti cantati ovunque in questi anni. Questo suo Miller è uno dei vertici della carriera: per misura vocale e scenica.
    E tutto il resto va nello stesso senso. Noseda ha un suo suono verdiano, riconoscibilissimo (era quasi lo stesso, nei Vespri di Torino): piuttosto chiaro nel timbro, per la scelta di tenere gli archi leggeri, tesi, vibrantissimi e fondamentalmente leggeri. Il che non significa che, quando c’è da dar corèp ed esplosività, Noseda stia indietro, anzi, esplode eccome! Ma con cognizione di causa. E l’altro aspetto fondamentale è la perenne mobilità del fraseggio: le scelte di tempo cambiano in funzione della musica e della scena. Il suo è, in questo senso, un Verdi teatralissimo, quindi “è” Verdi. E ancora: l’attenzione alla parola. Non se ne perde una, non ne va buttata una: straordinario, in questo senso, il lavoro con il coro (bentornato, con Grimes e questa Luisa abbiamo ritrovato, dopo qualche prova meno felice, il bellissimo “strumento” di Casoni). E ancora: la concertazione, voci e strumenti. C’è un capolavoro assoluto: il quartettino dell’atto secondo: Noseda & cantanti ne fanno un’alchimia di suoni, straordinario.
    Degli archi si è detto: ma è bellissimo il rilevo “parlante” chiesto e ottenuto, da Noseda, ai legni scaligeri, e (qui benissimo) l’oro bianco degli ottoni. E tutto è in funzione della “vita scenica” dell’opera. Questo è Verdi, e Noseda lo sa fare benissimo. A parte le poche recite passate in repertorio russo, questo poteva considerarsi il suo vero esordio sul podio d’opera alla Scala. E’ eccellente e il pubblico gliene ha reso meritato successo personale. Direttore italianissimo, eppure di respiro europeo, già si sapeva frequentando regolarmente Stresa. Che bella conferma.

    La Mosuc. “Sì, ma è una voce piccola”, abbiamo sentito dire, ieri sera, Ok, lo è, ma CANTA. Sa farlo, e benissimo. La sua Luisa quasi bambina, fragile folle eppur fortissima, potrà pur sembrar figlia di… Lucia (che Mosuc ha cantato, molto bene, diretta, molto bene, da Noseda), ma è perfettamente rispondente al “progetto musicale e scenico – Noseda più Martone – di una Miller adolescenziale, con la razionalità estrema e folle degli adolescenti (bene, male, bianco, nero) che la porterà a meditare il suicido prima e a farne parte, poi, per eccesso d’amore. E’ una Lucia giovanissima nell’anima e nei modi, con tutta la radicalità della gioventù. Canta – con i suoi mezzi “leggeri” , ma ferrei come la sua tecnica – un ultimo atto da antologia. E trepida, “vive” il èpersonaggio. Bravissima.

    Alvarez è Alvarez, prendere o lasciare. Prendiamo, tutta la vita. Prendiamo la bellezza iperbolica della voce, la generosità, lo slancio e anche la sensibilità. Il “Quando le sere” non è una prova impeccabile vocalmente, è molto di più e di meglio: una “rappresentazione” scenica e vocale racchiusa in pochi minuti di musica straordinaria. E’ – ad avviso di chi scrive – la più bella aria di Verdi (e, forse, di tutto il teatro d’opera) racchius in un’opera che non è certo la più bella di Verdi, ma è importante per capirlo prima e dopo. Alvarez ne fa una rappresentazione vocale e scenica, in cui entra tutto: suoni bellissimi, altri meno, ma sempre “anima”, e musica e teatro. E’ se stesso, con le incrinature di timbro contratte, nel tempo, “spingendo” sempre, come continua a fare. E si percepisce che, in questa primavera terribile per chi soffra d’allergie (non si respira, mica solo lui: mai vista una simile invasione di piume e pollini, la gola di chi qui scrive conferma) ha dovuto combattere (non c’è da sorriderne, la voce è il suo strumento). Alvarez si dà, tutto, in pregi e limiti. Una prova emozionante. E sincera.

    Qualche perplessità sulla timbrica di Kowaljow (Conte) e Youn (Wurm), ma sono ricondotti a disciplina e giusta misura teatrale da Noseda.

    Straordinario personaggio la Federica di Daniela Barcellona, forse la miglior riuscita dell’allestimento di Martone. Duchessa di fisico prorompente in code di volpe, frustrata, aspra eppure anche dolce, con le asprezze e la morbidità della voce usate entrambe a fine drammatico.

    Martone, appunto. Lavora per sottrazione, il rischio (e, in parte l’esito) è una scena molto vuota, in cui sembra non accada niente. Non ripete l’esito bellissimo di Pagliacci e Cavalleria, ma vuota non è, o non del tutto. E non è una scena stupida, anzi. L’idea dei due segni chiarissimi – il LETTO e il BOSCO, il luogo delle passioni e quello degli incubi e dei misteri dell’animo umano – peraltro noti simboli “psicanalitci” – disegna Luisa Miller per ciò che in realtà è: uno PSICODRAMMA, nel quale i protagonisti commettono azioni inenarrabili per eccesso di “sentire” (amore, odio, offesa, potere): progetto e/o realizzazione di avvelenamento personale e reciproco, assassinio, non così slegate – pensiamoci bene – da molte storie altrettanto estreme che, oggi 2012, leggiamo continuamente sui quotidiani. E allora va benissimo la rappresentazione “non in costume”. E’ ottima l’idea del cerchio, la poltrona di Wurm che gira, attorno a Luisa “costretta” a scrivere la lettera decisiva.
    Ripeto, nella realizzazione, a furia di procedere per sottrazione ne risulta uno spettacolo scenicamente “vuoto” fino all’eccesso. Ma l’idea (il letto, il bosco, più le TRIBUNE, per il commento della “gente” alla vicenda dei privati) resta ed è intressante.

    Ripeto: non è uno spettacolo perfetto , ma in un certo senso è di meglio: perché, di tutto, pregi ed eventuali limiti, fa tesoro a livello musicale e drammaturgico. Il che “è” Verdi.

    marco vizzardelli

  3. alda giugno 7, 2012 a 4:31 PM #

    Serata decisamente più-no-che-sì. Un solo intervallo (tra primo e second’atto). Pubblico cordiale ma nulla più, un solo contestatore provinciale al termine dell’aria di Luisa, sala non pienissima.
    Non riesco a riconoscere una sola idea interpretativa di Noseda. Tutto scorre via corretto e pulito, il rapporto col palcoscenico è tendenzialmente buono, l’ouverture è di alta routine, i cantanti solo pochissime volte vengono coperti. Però, che senso abbia “Luisa Miller” all’interno della parabola verdiana non è dato sapere da una lettura che non conduce letteralmente da alcuna parte. Un po’ poco per una nuova produzione. Orchestra che a volte tende al bandismo (meglio, certamente, del banditismo di certe recenti prestazioni), archi insolitamente e fastidiosamente vetrosi, attacchi spesso imprecisi negli assiemi. Tra i meriti, una ottima cantabilità dei legni.
    Lo spettacolo vorrebbe farci credere che Schiller sia Shakespaere. Purtroppo per i fan del poeta germanofono (e per gli spettatori di iersera) così davvero non è. Quindi il lettone rosso invece che essere ossessivo e onirico diviene ridicolo e caricaturale. Il boschetto ricorda tanto quello di “Bambi”, segnatamente nella scena in cui il dolce cerbiattino rimane orfano. I palazzi del potere sono raffigurati in maniera meno decadente del palazzo che sta di fronte al Teatro alla Scala. Qualche buon effetto di luce. Costumi imbarazzanti. Il lavoro sui personaggi di Martone si vede, naturalmente, ma l’esito è un catalogo di isterismi ed esagitazioni davvero fastidioso. Tale per cui, per fare solo due esempi, Rodolfo diviene un mix scenico tra Spoletta e Herodes, mentre Federica somiglia paurosamente a certi transessuali del cinema underground americano. Una messa-in-scena complessivamente deludente.
    Il cast è dominato da quel fuoriclasse che è Youn. Dall’entrata di “Furor di gelosia m’arde nel petto” non c’è frase che non sia cesellata al millimetro. La dettatura della lettera richiama il grande declamato verdiano riletto però alla luce di una espressività modernissima. Rimarrà indelebile nella memoria il modo in cui Youn traduce l’indicazione verdiana “freddamente” sulle parole “L’udisti: egli muore”, sempre nella scena con Luisa. Il resto è ugualmente di altissimo livello. Che lezione!
    Buco nero insopportabile della serata la prestazione del tenore protagonista. Trovo disonesto continuare a spacciare per generosità quella che è semplicemente grossolanità. “T’amo d’amor” è straziante, “Deh! la parola amara” presenta una serie paurosa di suoni incontrollati. Ma la cosa che colpisce di più è l’assenza della benché minima intelligenza interpretativa. Come si fa a cantare con tale indifferenza una frase come “A me soltanto e al cielo arcan tremendo è manifesto!” eccetera? Aggiungiamoci il peggior “Oh! fede negar potessi” ch’io abbia mai sentito dal vivo, nonché un terzo atto senza fremito. Mai più, se possibile.
    La Mosuc canta tutto e canta molto bene. Non emoziona sempre, la voce a volte è piccola, “Il foglio lacero, annullo” non è l’esplosione che dovrebbe essere. Però che bel sentire.
    Nucci è decisamente vetusto, anche se qui limita i suoi vezzi negativi. Il la-bemolle stratenuto non mi commuove, anche se è una prova atletica non da poco per quell’età. “Andrem raminghi e poveri” non mi commuove: e questo è già più un problema.
    La Barcellona a mio parere nulla c’entra con questo Verdi, per cui rimane una buona prova vocale, ma in qualche modo estranea.
    Kowaljow tiene per tutta la serata, il settore acuto è imponente. Non male, direi. Il carisma è sottozero.
    Valeria Tornatore è musicale, ma avrei anelato a qualcosa di più nel “Come in un giorno solo”.
    Adeguato Shin.
    Coro bene bene bene bene bene.
    Una “Luisa Miller” vale sempre la pena. Ba sta questo per giustificare la presente nuova produzione scaligera?

  4. marco vizzardelli giugno 8, 2012 a 5:05 PM #

    Enrico Girardi, Corriere della Sera, 8 giugno 2012

    Da tempo una prima verdiana alla Scala non filava liscia come l’altra sera Luisa Miller. Salvo lo sparuto dissenso di un loggionista, lo spettacolo, nuova produzione diretta da Gianandrea Noseda, regia di Mario Martone, è stato infatti accolto dal pubblico con numerosi applausi, non solo al termine dei suoi tre atti ma anche di tutti i suoi «numeri», concertati duetti o arie che fossero. Questo è stato l’esito del lavoro armonioso di tutto il teatro, l’orchestra e il coro perfettamente preparati da Noseda e da Bruno Casoni, il cast ben assemblato e indotto a rendere al meglio, la messinscena né idee rivoluzionarie né mera illustrazione ma semplicemente funzionale al dramma, ennesimo caso di un amore contrastato che trova compimento solo nella morte.

    Gioca, lo spettacolo, sul contrasto tra la natura, i larici del Tirolo, e la città, scranni di un parlamento/aula di tribunale che simboleggia le storture di una Legge tirannica. Spettacolo spoglio, in abiti d’oggi, piuttosto accurato nella recitazione. E, a proposito di recitazione, dove non arriva il lavoro di Martone, ecco emergere quello di Noseda. Ecco un cantante naturalmente portato all’enfasi veristica come Marcelo Álvarez (Rodolfo) cercare invece il chiaroscuro e le mezzevoci. Ecco Leo Nucci (Miller), uno che «di rughe il volto ha solcato», ancora capace di emozionare con accenti di calibrata drammaticità e calibrata malinconia.

    Daniela Barcellona e Marcelo Alvarez in un momento dell’opera «Luisa Miller» di Giuseppe Verdi andata in scena alla Scala. La Barcellona ha interpretato il ruolo della dark lady

    Ecco il candore virginale di Elena Mosuc, che ha temperamento e voce ideale per la parte di Luisa, quasi prova generale di Violetta. C’è poi la classe altera di Daniela Barcellona, finalmente impegnata in un ruolo da femmina – e che femmina, in veste dark lady – come quello di Federica. Ottimo inoltre è il perfido Wurm di Kwangchul Youn. E c’è infine Vitalij Kovaljov, voce un po’ legnosa ma efficace per la parte del cattivissimo conte Walter. È insomma un cast ineccepibile, ben superiore a quelli non solo dei teatri italiani ma anche di celebratissimi teatri europei. E che ottimo debutto è stato quello di Noseda! Non lima lo «sporco» di questo Verdi «già e non ancora», e dunque non la riduce a quel colore «neutro» che purtroppo si ascolta spesso. Né d’altra parte carica gli accenti oltre quel limite dove albergherebbe il volgare.

    La sua è una lettura così matura da far riscoprire che bello e verdiano è il suono dell’orchestra scaligera. L’unico addebito, se proprio se ne vuole dire uno, è che il terzo atto non vanta la stessa tensione drammatica dei precedenti. Ma la morale è quella di una Luisa Miller degna del blasone e del prestigio assoluto, ora indiscutibile, del teatro milanese.

    Enrico Girardi

  5. proet@barboon giugno 9, 2012 a 3:27 PM #

    un’interessante inchiesta del Giornale della Musica che tratta dell’eterno pasticcio italiano nella relazione fra pubblico e privato nell’ambito del finanzamento per le attività musicali:

    STRANI INVESTIMENTI
    di ENRICO BETTINELLO
    dal Giornale della Musica Giugno 2012

    Che in tempi di crisi gli occhi siano puntati più che mai su come vengono utilizzati i finanziamenti pubblici per i grandi eventi è cosa piuttosto comprensibile. Sebbene negli ultimi due anni si sia registrato a livello nazionale – anche a seguito di forti pressioni mediatiche – un parziale reintegro e mantenimento del Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), non sfugge certo a chi voglia farsi un quadro generale della situazione che la scure dei tagli si è abbattuta pesantemente a livello di enti locali, con forti ridimensionamenti di contributi e sostegni a teatri, rassegne, associazioni e un po’ a tutto il sistema culturale e dello spettacolo dal vivo delle nostre città. Sotto i riflettori finiscono così inevitabilmente quegli eventi per cui si continuano a spendere molti quattrini pubblici, eventi spesso gratuiti e sotto forma di festival, fondamentalmente pensati anche in funzione turistico/promozionale e talvolta con cartelloni sul cui reale valore artistico e culturale più di qualcuno solleva perplessità.
    In che termini e in che misura è giusto spendere denaro pubblico, specialmente in tempi di profonda difficoltà in cui a gran parte degli operatori vengono sventolate da
    Città e Regioni desolate tasche vuote (e con un implicito invito a “rivolgersi al privato”) per sostenere questo tipo di iniziative? E se molti di questi cartelloni vengono dichiaratamente costruiti come “popolari” (si sa, il livello culturale del pubblico viene spesso gentilmente sottostimato da chi si prende la briga di curarne il tempo libero), perché non si reggono economicamente da soli, come succede in altri settori della musica di consumo?
    L’abbiamo chiesto per primo all’Assessore alla Cultura della Città di Torino del sindaco Piero Fassino (Partito Democratico), Maurizio Braccialarghe, che ha suscitato
    non poche discussioni con il recente Torino Jazz Festival, vuoi per la evidente tardiva promozione, vuoi per il periodo scelto (meteorologicamente assai incerto per degli eventi dal vivo open air), vuoi per il cartellone allestito dal direttore artistico Dario Salvatori, da più parti – e onestamente non a torto – ritenuto qualitativamente non in linea con la vitalità del jazz contemporaneo e soprattutto con i denari spesi.
    “Torino è una città che ha un’eccellente offerta musicale per quanto riguarda la musica colta e quella pop, dal Regio al Traffic, dal Lingotto a Club to Club – ci racconta
    Braccialarghe pochi giorni dopo la fine del Festival -, ma era da qualche anno che mancava un grande evento legato al jazz e sono davvero contento che, al di là dei numeri, di avere scorto un vero e proprio desiderio di musica nei volti delle persone che hanno seguito i concerti, la sezione Fringe nei locali, i film e gli incontri letterari
    che erano in programma”.
    I dati forniti dall’Assessorato sull’affluenza agli eventi, tutti gratuiti, raccontano di quasi centomila presenze nei cinque giorni del Festival, ma qualche mugugno lo ha sollevato – ad esempio – Federalberghi sulle presenze turistiche, che sarebbero addirittura in leggera flessione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
    “L’anno scorso si festeggiavano i 150 anni dell’Unità d’Italia e il calendario presentava una concomitanza con la Pasqua – precisa l’Assessore – e comunque i dati nazionali sono tutti in flessione. Per quanto riguarda il periodo, ho scelto questo proprio con un occhio al turismo e non volendo sovrappormi a altri
    eventi cittadini o altri importanti festival jazzistici nazionali”.
    Il tempo inclemente che ha funestato la serata con Carla Bley? Su questo argomento Braccialarghe la prende con filosofia: “Una serata di tempesta può accadere anche a luglio, è vero che ci sono dei maggio piovosi, ma è anche vero il contrario”.
    Ma quanto è costato davvero il Festival?
    “890.000 euro, di cui il 65% coperto da sponsor privati, per cui dalle casse comunali il Festival ha ricevuto circa 325.000 euro” precisa Braccialarghe, anche se qualcuno ha fatto notare che uno sponsor come Iren è comunque partecipato dal Comune.
    “Molto ha inciso ovviamente l’aspetto tecnico e logistico, così come i compensi artistici, che complessivamente rappresentano una metà del budget, per un cachet
    medio che va da 15 ai 35.000 euro a concerto” continua l’Assessore snocciolando con trasparenza numeri che magari qualcuno troverà un po’ eccessivi per artisti ormai non imperdibili come Billy Cobham o gli Yellowjackets.
    Ma lasciando da parte le polemiche e rispondendo al nostro quesito principale, Braccialarghe non ha esitazioni: “Sono soldi ben spesi e se non li avessi investiti in questa manifestazione avrei impoverito la città di un evento di questa portata. Abbiamo cercato di coinvolgere quanti più operatori locali potevamo e siamo aperti a critiche costruttive – conclude l’Assessore svelandoci alcune carte sul futuro della manifestazione -: certamente la promozione partirà molto prima, vorrei che i jazzisti invitati pensassero a dei progetti speciali per il Festival e spero anche che la sezione Fringe possa aprirsi a tanti nuovi talenti internazionali”.
    Buonissime intenzioni che si registrano molto volentieri, anche se le parole del direttore artistico Salvatori, pubblicate sul settimanale cittadino della “Stampa”, “TorinoSette”, nei giorni di presentazione del Festival e secondo cui la creatività jazzistica “negli ultimi vent’anni non ha partorito granché di nuovo”, non ci sembrano un segnale troppo confortante in una prospettiva di innovazione culturale.

    Sole toscano
    Un altro caso su cui non sono mancate perplessità è quello del Tuscan Sun Festival, il grande appuntamento estivo che per nove edizioni si è svolto a Cortona, in provincia di Arezzo, e che da quest’anno si tiene a Firenze, con un più che sostanzioso supporto da parte dell’Ente Cassa di Risparmio e il patrocinio del Comune. Piovono tagli, ma si supporta un’iniziativa privata – il patron del Tuscan è il milionario impresario americano Barrett Wissman – nella stessa città.
    Abbiamo chiesto qualche delucidazione a Stefano Passigli, presidente degli Amici della Musica di Firenze, realtà concertistica tra le più antiche e prestigiose in Italia, nonché negli ultimi tempi colpita da un ridimensionamento del finanziamento proprio da parte dello stesso Ente Cassa di Risparmio: “Trovo che ci siano diversi punti deboli in questo passaggio del Tuscan da Cortona a Firenze – ci dice Passigli – perché mentre la prima è una bellissima località che per dimensioni, per politica turistica e di valorizzazione del territorio trovava nel Festival un elemento di valore, Firenze è una città che già ha nel campo della musica classica un’offerta vastissima, dall’ente lirico all’Orchestra Regionale, passando per la nostra Stagione e molte altre iniziative. Il Tuscan è poi dichiaratamente l’evento di un privato, passerella di un agente musicale che include nel programma i propri artisti, e risulta un po’ strano che debba essere sostenuto da denaro pubblico o parapubblico, in particolare perché la qualità del programma proposto, tolto qualche grande nome, non è tale da giustificare certe cifre”.
    Gli Amici della Musica devono fare i conti con una serie di tagli, ma l’argomento spinge Passigli a ulteriori riflessioni: “I tagli non fanno mai piacere, ma al di là del caso specifico credo che ci sia, a livello nazionale, un problema di sopravvalutazione della lirica rispetto alla musica da camera, che è così importante anche nel percorso
    formativo di uno strumentista”.
    “Nel nostro caso i soldi che prendiamo dagli enti locali non sono molti, abbiamo il Fus e il contributo dell’Ente Cassa di Risparmio, che è stato ridotto, ma speriamo
    venga ristabilito nelle sue dimensioni, ma va anche ricordato – conclude Passigli – che siamo la sola società concertistica che paga l’affitto al Teatro della Pergola per
    i concerti che facciamo”.

    Economia dei festival
    Gli esempi che abbiamo portato – per una ragione di attualità ma potrebbero essere molti altri – raccontano di situazioni su cui ciascuno si può formare un’opinione, ma soprattutto sollevano domande che spesso possono trovare risposte contraddittorie. Abbiamo provato per questo motivo a chiedere a Guido Guerzoni, docente presso l’Università Bocconi e tra i massimi esperti di economia delle arti dal vivo, qualche indicazione in più su buone pratiche e indicatori, anche a livello europeo. “Anche nell’ambito della ricerca accademica non ci sono risposte univoche – ci conferma – sia per quanto riguarda l’aspetto degli indicatori di qualità sia per la quantificazione delle ricadute economiche di un festival sul territorio. L’Unione Europea ha fornito recentemente una serie di indicazioni proprio sul tema dei festival, che sono ritenuti strategici specialmente per aree territoriali bisognose di un rilancio socio-culturale, ma spesso si tratta di suggerimenti che pur ottimi e condivisibili, hanno necessariamente un carattere di genericità che si presta a molte interpretazioni”.
    Impossibile quindi trovare il bandolo della matassa?
    “Le cifre si prestano sempre a letture differenti – continua Guerzoni – ma ci sono indubbiamente degli ambiti in cui la riflessione può avere contorni più incisivi, come quello del turismo: se un grande evento viene pensato con una funzione attrattiva di nuovi flussi turistici, dovrebbe avere determinate caratteristiche sia a livello di originalità di contenuti che di modalità promozionali”.
    La partita si gioca così tra chi continua a sostenere la strategicità dei grandi eventi nella crescita economica e culturale delle nostre città– e questi eventi richiedono
    inevitabilmente investimenti molto consistenti – e chi invece crede in modelli più sostenibili di sviluppo di questo settore, favorendo l’incontro tra la produzione dal basso e le possibilità di condivisione creativa a livello continentale, attraverso la formazione del pubblico e la mobilità di artisti e operatori. Posizioni in fondo non completamente inconciliabili se declinate con linee innovative, ma si sa che, quando i posti di lavoro e la stessa sopravvivenza di molte realtà culturali sono a rischio, è ancora più difficile fare quadrare il cerchio.

  6. masvono giugno 9, 2012 a 4:06 PM #

    La capacità di Barbun di essere sempre “in topic” è sbalorditiva. Perchè non gli aprite una stanza apposita?

    -MV

  7. orechhiofino giugno 11, 2012 a 11:35 am #

    i signori professori di orchestra farebbero meglio a concentrarsi sul suonare e magari anche meglio, viste le marmellate di suoni degli arpeggi degli archi nel finale della Luisa Miller…
    I commenti li lascino al pubblico che può dedicare tutta la propria attenzione a ciò!!!

    • Alda giugno 11, 2012 a 12:56 PM #

      Concordo totalmente.

  8. marco vizzardelli giugno 11, 2012 a 1:05 PM #

    Io non sono certo stato tenero con la Scala e l’orchestra, negli ultimi mesi. Ma, da questa Miller (e ancor più da Grimes) sono uscito soddisfatto. E l’ho detto. Perché i meriti vanno sempre riconosciuti (come i demeriti).

    Ma… noto una singolare, compiaciuta persistenza nel dire che tutto fa schifo anche quando (vedi questa Luisa Miller musicalmente riuscita, con uno spettacolo che non è il migliore di Martone ma ha idee intelligenti) ci sarebbero – qui ci sono – motivi di soddisfazione. Io vado a teatro sperando di sortirne soddisfatto. Quando accade lo dico, e sono felice di dirlo. Quando no, lo dico, anche sonoramente. E’ invece sconcertante l’atteggiamento di chi si presenta e fa il registratore di compiuto schifo, soddisfatto della propria convinzione che tutto faccia schifo e vada di conseguenza distrutto. Io la chiamerei nevrosi… o è altro?
    Se è nevrosi, ok. Se è altro, invece, varrebbe forse la pena preoccuparsi. Certo è abbastanza singolare il fatto che – su diversi siti – appena qualcuno osa parlar bene di uno spettacolo della Scala, per questo solo fatto scatta la contraerea. Francamente, non mi pare un modo sereno di andare a teatro.

    marco vizzardelli

  9. GloriaCortesi giugno 11, 2012 a 1:23 PM #

    Bravo Vizzardelli! La Luisa Miller vale la pena di essere vista: musicalmente valida, ben interpretata dal regista e dai cantanti e diretta con passione (un po’ eccessiva alla vista!) ma ottima nel risultato sia da parte del maestro Noseda sia dell’orchestra.
    Io sono felice di leggere il parere dalla ‘buca’, e lo trovo molto interessante. grazie Checcoscaligero!
    Gloria

  10. lavocedelloggione giugno 11, 2012 a 4:46 PM #

    Anch’io sono contenta di udire le voci dalla “buca”; non li vedo affatto come due mondi contrapposti, loro che suonano, insieme agli artisti che cantano, il direttore che dirige e i registi e scenografi che hanno preparato la parte scenica da una parte e noi pubblico dall’altra pronto a scatenarsi nella critica. E’ vero che il blog l’abbiamo chiamato “la voce del loggione” ma se nessuno dall’altra parte ci rispondesse mai, la voce darebbe un’ eco un po’ sterile e, viceversa, le voci dalla buca ci permettono anche di capire il lavoro e il modo di sentire di chi lo spettacolo lo realizza e ci mette la sua arte e la sua professionalità.
    E poi anche a me dispiace vedere nelle critiche un tono disfattista, perché anch’io, come Vizza, vado a teatro sperando che sia un trionfo e se dico che non mi sono particolarmente emozionata è solo il mio punto di vista, ma sono più contenta di essere smentita dagli altri piuttosto che leggere commenti sfavorevoli o troppo critici, fermo restando che la critica fa bene, deve solo essere sempre onesta e non preconcetta e sicuramente quella di Alda è onesta e ben articolata e non fa certo parte dei disfattisti ad oltranza. Ciao ciao Attilia

    • Alda giugno 11, 2012 a 5:01 PM #

      A scanso di equivoci chiarisco. Ho detto che concordo con “orechhiofino” non perché un(‘)orchestrale non possa partecipare a un blog, ci mancherebbe. Semplicemente ho imparato a essere allergica alle orchestre che si arrogano il diritto di esprimere sentenze estemporanee (negative o positive) su chi li dirige o su chi canta in palcoscenico e su chi concepisce un allestimento. E lo dico non in senso censorio, bensì temendo che si ripetano episodi (frequenti e recenti) in cui si lede la dignità professionale di altri co-partecipanti allo spettacolo andando sulla stampa o tra il pubblico (roba da licenziamento immediato per giusta causa per comportamento antiaziendale!) a discettarne i limiti. Ripeto: a prescindere dal merito.
      Quanto all’Orchestra del Teatro alla Scala: nella mia vita mi ha regalato tali momenti strepitosamente indimenticabili che non posso non volerle bene.

  11. marco vizzardelli giugno 11, 2012 a 5:07 PM #

    … e su quest’ultimo intervento sono, ovviamente e per storia vissuta e ben nota, d’accordo al 100% con Alda. Lo approvo integralmente.

    marco vizzardelli

  12. lavocedelloggione giugno 11, 2012 a 5:38 PM #

    Tutti d’accordo, sul volerle bene (all’orchestra) e voler bene all’intero Teatro; io ci vado dal ’55, avevo 5 anni e non smetterò mai di essere grata ai miei (soprattutto a mia madre, 95enne loggionista ancora in attività) per avermelo fatto amare fin da piccola! (lucciconi! ) Torno a vedere la partita! Attilia

  13. PAOLUCCIA giugno 12, 2012 a 9:29 am #

    http://www.gbopera.it/2012/06/milano-teatro-alla-scala-luisa-miller/
    QUESTA E LA RECENSIONE PIU VERA PER ME
    CIAO

  14. orecchiofino giugno 12, 2012 a 10:41 am #

    Anche io voglio bene alla Scala…..ma ribadisco…chi ci lavora dovrebbe evitare di fare commenti….tanto più che sarebbe meglio,come ripeto, che chi sta in buca, pensasse solo a suonare dall’inizio alla fine, senza commentare, ammiccare,mentre i cantanti cantano, nè tanto meno masticare chewingum……e sappiamo di chi stiamo parlando!

    Orecchiofino

  15. marco vizzardelli giugno 12, 2012 a 11:24 am #

    Extra Scala

    All’Auditorium di Largo Mahler, a Milano, per la Stagione dell’Orchestra Verdi, felicissimo passaggio, fra giovedì e domenica scorsa, di Roberto Cominati nel Concerto nr 4 in sol magg. per pianoforte e orchestra, di Beethoven. La strada interpretativa è quella che si era già aperto con l’esecuzione del Secondo, qui alla Verdi. Un “perlage” di suono (bellissimo), quasi pulviscolare, sgranatissimo, leggero ma anche, dove occorre, energico, per una lettura di grande intensità che ha il suo cuore nella straordinario movimento lento: sul quale, Cominati aveva anticipato, intervistato su La Repubblica, la voluta sfasatura ritmica fra il tempo lento, suo, e l’orchestra, secca, laconica. Così si è svolto il dialogo che dà vita a questo incredibile… frammento di movimento. Nel movimento iniziale, impressionante per intensità e colore è anche la cadenza. La dialettica con l’orchestra è permanente. La Zhang Xian, direttore stabile della Verdi, che di suo (ma non sempre: non nella recente, ottima Eroica, non nella Quarta di Brahms) tenderebbe al “muscolare”, alleggerisce e dialoga. Ne esce un Quarto notevolissimo, incorniciato da una altrettanto notevole (per asciuttezza, nitore) Quarta di Brahms, e da un Ouverture del Franco Cacciatore sulla quale, per la verità, non ho avuto altrettanto entusiasmo. Là dove la musica si fa “evocativa” (era accaduto con il Klagende Lied di Mahler) la Xian mi sembra meno a suo agio.
    Ma il Quarto di Beethoven by Cominati vale la serata. Dopo l’eccezionale integrale discografica di Ravel e gli altri esiti di questi anni (qui alla Verdi e altrove: recente l’esito trionfale dell’Egiziano di Saint-Saens a Santa Cecilia, scelta rara e interessante), Roberto Cominati si conferma fra i grandi del nostro tempo, sicuramente il più importante fra gli italiani nati dopo Pollini. Bisogna un po’ “inseguirne” i programmi, ma anche questo non è un cattivo segno: non è certo un pianista juke-box, come va di moda. Lui non balla con i lupi, non mette i giubbotti techno e le paillettes, non ammicca al pubblico contorcendosi alla tastiera. Ma, con il suo abito impeccabile, suona, benissimo, il pianoforte.

    marco vizzardelli

  16. Piroso giugno 15, 2012 a 1:22 PM #

    un Maesctr così non l’avete mai visto

    http://operachic.typepad.com/opera_chic/2012/06/take-him-out-to-the-ballgame-mutis-.html

  17. Gabriele Baccalini giugno 18, 2012 a 1:08 PM #

    Finalmente un Verdi Verdi alla Scala. L’ultima Aida era stata funestata dallo scontro tra l’orchestra e il concertatore, olteché dal cast impresentabile. L’anno scorso c’era stato un Attila decoroso, soprattutto per la direzione di Luisotti, ma negli anni precedenti Verdi era stato matrattato come mai credo nella storia della Scala.
    Il merito va innanzi tutto a Noseda, che nella prima parte mi è sembrato a tratti riportare un po’ indietro la Luisa Miller nella parabola dello stile verdiano, con un suono – a tratti, ripeto – un po’ ruvido e molto staccato. Bellissima la sinfonia, con uno sprazzo finale un po’ fuori posto degli ottoni, che forse sono scappati di mano al maestro.
    Nella seconda parte Noseda ha saputo creare un crescendo drammatico, che, al di là di qualche piccolo difetto di qualche cantante, ci ha fatto collocare giustamente la Luisa Miller come la vigilia del raggiungimento della “perfezione melodica” (v. Masimo Mila) nella cosiddetta trilogia popolare.
    Quello che – a differenza di troppe occasioni mancate – ha funzionato benissimo è stato il rapporto buca-palcoscenico e non starò a ripetere quanto hanno già scritto altri in modo autorevole e competente.
    La Mosuc, più a suo agio secondo me nel canto spiegato che non nei recitativi, merita un giudizio positivo per l’espressività del canto e della recitazione di un personaggio, che è avvinto da un inestricabile contrasto di affetti e di passioni.
    Leo Nucci è stato semplicemente Leo Nucci, dalla voce intamontabile e dalle gigionerie ridotte rispetto al suo standard. Un Miller difficilmente reperibile oggi sul mercato.
    Ottime le prove dei due bassi e, secondo me, di Daniela Barcellona, che da rossiniana doc può spostarsi più facilmente verso certi ruoli verdiani che non verso il barocco “filologico” di oggi.
    Ma la sorpresa, almeno per me che ho sentito soltanto la replica di venerdì 15, è stato il giovane tenore Pretti, che ha sostituito sin dall’inizio Alvarez, vittima della nota allergia ai pollini di stagione (e forse anche alla immancabile polvere del palcoscenico). Voce fresca, squillante, magari da affinare, ma se imbrocca gli studi e il repertorio, potremmo fare in futuro affidamento su un tenore in grado di andare al di là delle parti sostenute da un Florez e anche da un Grigolo, confinati in un recinto nel quale peraltro l’uno è eccelso e il secondo è già avviato a una carriera di prim’ordine.
    Condivido l’opinione di chi considera la prova registica di Martone decisamente al di sotto di altre sue, operistiche e cinematografiche. Niente che disturbasse, ma una certa povertà di idee, per cui la pur legittima trasposizione dei cosrtumi nel tempo dava un che di generico al racconto scenico, nel vuoto del grande spazio del palco scaligero.
    In definitiva, un’ottimo aperitivo per la stagione verdian-wagneriana. Speriamo che le portate della grande abbuffata del prossimo anno non deludano le aspettative..

  18. Gabriele Baccalini giugno 18, 2012 a 1:17 PM #

    P.S. Dimenticavo di sottolineare le buone prove degli altri comprimari, in particolare di Valeria Tornatore, e la conferma che il coro di Bruno Casoni è tornato ad essere all’altezza dela sua fama, dopo qualche prova un po’ opaca.
    Ringrazio Attilia per avere steso un velo pietoso sualla Nona Sinfonia eseguita alla presenza del Papa, che – nel caso specifico – purtroppo è uno che se ne intende.

  19. kidney failure symptoms agosto 1, 2013 a 4:45 PM #

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