29 Ott
Dal 29 Ottobre al 13 Novembre 2015
Alban Berg

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala

Produzione Teatro alla Scala

Wozzeck

 

 

 

 

Durata spettacolo: 1 ora e 40 minuti senza intervallo

Direttore Ingo Metzmacher
Regia Jürgen Flimm
Scene Erich Wonder
Costumi Florence von Gerkan
Coreografia Catharina Lühr
Luci           Marco Filibeck

Wozzeck Michael Volle
Roman Trekel (11 e 13 novembre)
Tambourmajor Roberto Saccà
Andres Michael Laurenz
Hauptmann Wolfgang Ablinger-Sperrhacke
Doktor Alain Coulombe
1° Handwerksbursch Andreas Hörl
2° Handwerksbursch Modestas Sedlevicius*
Der Narr Rudolf Johann Schasching
Marie Ricarda Merbeth
Margret Marie-Ange Todorovitch
Mariens Knabe Tito Comoglio (voce bianca 29 ott.; 3, 8, 13 nov.)

Alberto Galli (voce bianca 31 ott.; 6, 11 nov.)

Ein Soldat Sascha Kramer*

*solista dell’Accademia

Mondi stravolti, miseria e perdita d’identità, fino all’annientamento. Brividi, visioni, abissi dell’inconscio, nell’infermità della mente. Un omicidio rituale come straziante epilogo del capolavoro operistico del Novecento. Wozzeck tratta delle abnormi attenuanti di un diseredato, con sbalorditivo approfondimento psicologico e antropologico. Ai reietti, criminali a volte senza colpa, si rivolge la compassione del grande artista. La segreta alchimia musicale di Berg ha tradotto per gli ascoltatori le deformazioni della follia con una forza e una pietà che continuano a impressionare a novant’anni di distanza. Lo spettacolo del regista Jürgen Flimm, ormai un classico imprescindibile per la Scala, porta in scena anche parti del geniale dramma Woyzeck di Georg Büchner, da cui l’opera è tratta.

 

10 Risposte to “”

  1. marco vizzardelli ottobre 29, 2015 a 4:14 PM #

    Mentre dall’altra parte, qui sotto, prosegue la discussione sulle magagne della Scala, approfitto dell’apertura di quesa sezione su Wozzeck , e in attesa dell’opera di Berg, per infilare un off-topic su evento di vita musicale milanese, che è interessante al di là della Scala e che sarebbe sempre bene tener presente in toto qui su La Voce

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    Al Dal Verme di Milano, ieri sera 28 ottobre, il Concerto Civile Giorgio Ambrosoli si è trasformato in una preziosa, rara occasione: l’incontro, nel nome di Maurice Ravel e del suo Concerto in Sol, di due personalità musicali tali da rappresentare in maniera paradigmatica il fascino degli opposti: il pianista Roberto Cominati e il direttore (e violinista e altro ancora) Stefano Montanari. Che è come mettere Apollo (Cominati) a fianco di Dioniso (Montanari) e dir loro di far musica insieme. La presenza dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali ad unirli lascia pensare che all’idea iniziale dell’incontro non sia estraneo Maurizio Salerno, oggi la figura di Direttore “Artistico” – nel vero senso del termine – più creativa e stimolante attiva a Milano, e non solo.
    Ora, si dà il caso che la lettura di un grande concerto quale quello di Ravel possa andare a segno per opposizione, cioè per dialettica, anziché per consonanza, qualora la musicalità di pianista e direttore lo consenta. Ed era esattamente il nostro caso. Veder entrare “in scena” insieme Cominati e Montanari è già un Capolavoro degli Opposti: giacca pantaloni fumo di Londra di impeccabile taglio, capelli perfettamente ravviati, scarpe lucidate a specchio, passo elegante, “allure” classica per il pianista; camicia-tuta nera con chiusura sbieca a spacco, cranio rasato, sventagliata di anelli alle mani, stivali da motociclista, passo-corsa rock per il direttore. Ravel sarà un divertimento!
    E lo è. A Roberto Cominati si deve la massima incisione dell’integrale pianistica di Ravel oggi sulla piazza. Una sorta di identificazione fra compositore ed interprete. E il concerto conferma. La bellezza di un suono astratto, l’aplomb, anche un certo dandysmo iper-raffinato ci portano al cuore della musica di Ravel. Oggi, probabilmente, solo la (dionisiaca) Argerich può darcelo, su parametri interpretativi differenti, a tale livello. Ieri, Michelangeli. Cominati è figura schiva, mai “appariscente”, del panorama concertistico. Ma chi lo conosce e lo segue sa a qual livello si esprima. Qui, nel celebre Sol, ci lascia in particolare un adagio ipnotico, incorniciato dal gioco di frammenti dei due movimenti esterni: è come se l’energia dell’Allegramente iniziale e del Presto conclusivo promanasse dall’Adagio centrale. Montanari aderisce all'”immagine” del movimento lento chiedendo e ottenendo dall’orchestra una serie di volute sonore che circondano e paiono avvolgere lo strumento solista. Ma dei due tempi veloci, là dove Cominati mantiene comunque aplomb e classicità, il direttore fa la musica di un folletto, una miriade di schegge impazzite, frammenti, accenni di frase, note spezzate: compito quasi improbo per l’orchestra che fatica parecchio, nel Presto, peraltro dando l’anima. In ogni caso nel connubio fra la perfezione classica del pianista e gli estri del direttore, l’esito è ricolmo di fascino. Cominati, raffinato, snocciola un bellissimo Morricone come bis.
    Il resto della serata è tutto di Stefano Montanari e va raccontato per filo e per segno. E’ già un colpo di genio l’esecuzione, all’inizio, dell’Inno di Mameli, mai udito così: Montanari lo trasforma in una danza leggerissima, aerea e quasi impalpabile. L’autore ringrazia: forse non lo aveva concepito esattamente così, ma l’Inno italiano non è mai stato così bello. Idem come sopra – la serata è celebrativa – il Beethoven del tema dalla Nona, Inno europeo. Ma alla fine arriva Franz Josef Haydn, la Sinfonia in do minore n.95, una delle grosse, delle londinesi. E qui non è più solo questione di estro, ma di genio e di continua maturazione del direttore-interprete (che ritroveremo, nel weekend, sul podio delle Nozze di Figaro, a Pavia). Montanari la legge come un gioco di prismi, dinamiche e geometrie: se ne avvantaggia, in particolare, lo sbalorditivo Minuetto e Trio, par di avere davanti l’immagine d’un parallelepipedo di musica in movimento. E il Vivace finale è tutto un gioco di tensioni prese e lasciate e riprese, fino allo scoppio della fanfara conclusiva. Qui l’Orchestra – probabilmente più nel “suo” – va come un orologio. Alla fine, il pubblico esulta. Bellissimo concerto, fuori – ed è un bene – da tutti gli schemi di quotidiana routine. Con Apollo e Dioniso nel cuore della musica.

    marco vizzardelli

  2. Tiziano ottobre 29, 2015 a 9:13 PM #

    Esco dal Wozzeck e non spreco più di un bisillabo: male.

  3. marco vizzardelli ottobre 30, 2015 a 9:17 am #

    VERDI-MESSA DA REQUIEM-AUDITORIUM- JADER BIGNAMINI E I COMPLESSI DE LA VERDI
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    La ventinovesima (o trentesima, secondo quel che vogliamo considerare Aroldo) opera di Verdi. Jader Bignamini, all’Auditorium di Milano con l’Orchestra e il Coro Giuseppe Verdi, non lascia dubbi sospesi. La Messa da Requiem ci arriva come dramma. Dramma religioso, sì (“Salva me fons pietatis”, liricissimo, ne è, nell’esecuzione, un momento chiarificatore, come sottolineato dal direttore cremonese in una intervista di vigilia). Ma teatro, teatro, teatro.
    Scansione, accenti, trasparenza, colore e parola ne sono i segni, nella lettura di Bignamini.
    Scansione. Il dramma corre, incalzante come raramente è dato d’ascoltare il Requiem. Gli episodi si innestano perfettamente e senza inopportune soste uno sull’altro, su tempi fondamentalmente più rapidi di quanto siamo abituati ad ascoltare. C’è tutta un’infinità di accenti, ben marcati, che non sempre si ascoltano. Uno – evidentissimo – sono i fantastici quattro colpi in crescendo da un quasi mezzoforte al fortissimo, della grancassa nel Dies Irae. Ma ve ne sono molti altri, lungo il cammino. Tale scansione, accesa e teatrale, si innesta su una trasparentissima concertazione (c’è chiarezza assoluta) e su un suono luminoso ma livido, e sulla parola – qui, più che mai “parola scenica” – scandita e perfettamente dentificabile, non si perde una sillaba e ogni sillaba è curata, in dizione ed espressione. Si ha, dunque, teatro, un dramma, una storia. E, nella scelta di tempi, colore ed espressioni, ne vien fuori un Verdi anche modernissimo, ardito nelle sortite e soluzioni strumentali: abbiamo accennato al Dies Irae, chiuso da un Lacrimosa molto effusivo ma sempre serrato, e al meraviglioso Rex Tremendae, ma prima c’e’ra stato un Tuba Mirum secco, non plateale, non c’è nulla di retorico, il dramma corre asciutto, sia pur illuminato dal suono. Anche l’Offertorio è gioco d’incastro, musicale e drammatico, fra il Domine Jesu e “quam olim Abrae”, né Bignamini indugia eccessivamente su “Hostias et Preces”. In tale visione, è ovvio che venga assunto in toto ed esaltato in strumentazione il talora discusso Sanctus, qui scintillante, baluginante di trasparenze. E la parola, le parole, tornano, lapidarie e chiarissime, nel Li-be-ra-me-Do-mi-ne davvero scandito dal coro, all’inzio del numero conclusivo e poi nel finale che, dopo una fuga quasi novecentesca nell’implacabile ritmo richiesto e ottenuto da Bignamini, si arresta, più che sospendersi come in interpretazioni più tradizionali, nell’immobilità di una lapide di marmo posta a suggello e dichiarazione del mistero della morte. Lettura e interpretazione avvincente, tale da confermare tutto un talento originalissimo e in chiara fase di approfondimento ulteriore nel lavoro sui testi.
    Gli strumenti. Orchestra e soprattutto coro rispondono a meraviglia. Pulita, limpida, sicura la prima. Ma sugli scudi stavolta è proprio il coro di Erina Gambarini che, nell’occasione, rispolvera ed esalta il dettato fondamentale di Romano Gandolfi che lo formò: la dizione. Non si perde una parola, e, nella lettura di Bignamini così come ve l’abbiamo esposta, il contributo del coro è essenziale, è corpo dell’esecuzione.
    I quattro solisti. Premessa: su indisposizione (vera e verificata) del soprano Sara Rossi Daldoss, nel tardo pomeriggio di ieri, ad un paio d’ore dal concerto, è giunta al volo Susanna Branchini, la Lady Macbeth di Wellber a Verona e i Gatti a Parigi. Già prevista per la sola replica di sabato nella chiesa di Sant’Angelo, ha provato quel che possibile ma ha praticamente cantato il Libera Me “in diretta”. Interprete talora discussa dai “vociologi duri e puri” come accade a quel tipo di cantante che si affida molto all’espressione, io trovo che proprio questo aspetto (oltre ad un’ottima capacità di “filare”) la renda particolare ed affascinante. Ovviamente un po’preoccupata all’inizio, è entrata con forza nel dramma inscenato da Bignamini, e sarà interessante riascoltarla nelle repliche (venerdì, sabato, domenica). Il mezzosoprano Maria josé Montile collabora da tempo con la Verdi e con lo stesso Bignamini e se n’è sentito l’affiatamento. Meno convincenti, forse, le due voci maschili, Danilo Formaggia ed Enrico Iori proprio per una questione timbrica, perché l’adesione al disegno interpretativo c’è tutta: ma una certa durezza in acuto del tenore e la pasta vocale non molto potente del basso han fatto sì che “Ingemisco”(meglio l'”Hostias”) e “Confutatis” scorressero via senza segno particolare, in una lettura che, invece, di segni ben marcati, avvincenti e spesso nuovi, ne ha lasciati molti.
    Alla prima, all’Auditorium, lunghissimi applausi ritmati a tutti e ovazione, compresa di orchestra seduta a battere gli archetti, a Jader Bignamini.

    marco vizzardelli

    marco vizzardelli

  4. E. ottobre 30, 2015 a 1:35 PM #

    Ieri sera prima recita del “Wozzeck” firmato Jurgen Flimm, già visto alla Scala nel ’97, nel 2000 e nel 2008. Esecuzione impeccabile, di grande impatto musicale, grazie soprattutto alla direzione di Ingo Metzmacher, che si conferma grande conoscitore delle partiture del Novecento, e allo splendido e caleidoscopico Michael Volle, protagonista indiscusso. Qualche riserva sulla Marie del soprano Ricarda Merbeth. Desolante vedere così tanti posti vuoti in sala: davvero un titolo del genere spaventa ancora? Dobbiamo continuare a proporre solo “Il barbiere di Siviglia”, “La traviata” e “L’elisir d’amore” per sbancare il botteghino?

    • masvono ottobre 31, 2015 a 1:40 PM #

      Il titolo “spaventa” relativamente. Gli abbonati hanno visto questo spettacolo nel 97, nel 2000 e nel 2008, non cinquant’anni fa, come giustamente ricordava lei. E, con tutto il rispetto per Metzmacher, con sul podio Sinopoli e Gatti. RIcordiamoci che questo spettacolo, di cui nessuno auspicava la quarta ripresa in meno di vent’anni, è riemerso in cartellone a causa del “forfait” di Kurtag.
      Saluti

      -MV

      • E. ottobre 31, 2015 a 2:06 PM #

        E’ vero, questo spettacolo è stata una sostituzione di Kurtag (che, per inciso, ha dato forfait pure a Salisburgo, non solo alla Scala). Consideriamo però la presenza di un protagonista interessantissimo come Michael Volle, nonché di Metzmacher, grande esperto di questo repertorio: è vero, non sarà un “mostro” (da intendere con accezione positiva) come Sinopoli o Gatti, ma resta pur sempre un concertatore che sa dire la sua (come ha fatto in “Die Soldaten” a gennaio).
        Un caro saluto

  5. pippo_bo ottobre 30, 2015 a 9:49 PM #

    Per la recita di domani – venduta a metà prezzo per ogni ordine e grado di biglietto – risultano quasi milletrecento (!!!) biglietti invenduti. Milletrecento!!!

  6. masvono novembre 12, 2015 a 9:58 am #

    Con la ripresa del Wozzeck dopo il concerto di Gatti siamo passati in 24 ore dalla “storia” alla “preistoria”. L’allestimento polveroso di Flimm invecchia male e nelle movenze dei personaggi il “grottesco” ha ormai completamente eliminato il (poco) di tragico che in origine conteneva. Metzmacher sul podio che fu di Sinopoli e di Gatti svolge burocraticamente il suo compitino riuscendo anche con l’orchestra a non servire al meglio i cantanti talvolta coprendoli. La differenziazione delle dinamica e la poesia non sono tratti distintivi della sua direzione, caratterizzandosi piuttosto in una fredda e un po’ sovraesposta nelle dinamiche lettura. Cantanti ottimi che non salvano però il tedio di uno spettacolo conosciuto ormai a memoria.
    Saluti

    -MV

  7. masvono novembre 12, 2015 a 10:11 am #

    P.S. Ad ogni ascolto di Wozzeck sono sempre più convinto di quanto genio ci fosse in Berg e di quanta “impotentia generandi” in Zimmermann.
    Saluti

    -MV

    • Tiziano novembre 12, 2015 a 3:35 PM #

      infatti Metzmacher è grande in Zimmermann e piccino in Berg…

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