22 Gennaio 2020
Chicago Symphony Orchestra
Direttore Riccardo Muti
PROGRAMMA
Richard Wagner
Der fliegende Holländer – Ouverture
Paul Hindemith
Symphonie Mathis der Maler
– Engelskonzert
– Die Grablegung
– Versuchung des heilingen Antonius
Sergej Prokof’ev
Sinfonia n. 3 op. 44
Il suo mondo è… Fedora, e lo ha dimostrato con la magnifica, commossa lettura dell’Intermezzo dall’opera di Giordano, nettamente il momento migliore del concerto di Riccardo Muti, con la Chicago Symphony, al Teatro alla Scala.
Il Wagner dell’Ouverture dell’Olandese Volante è stato francamente brutto nel suono, volgare nella “frase” e nel divaricarsi delle sonorità fra boati peroranti degli ottoni e successiva inerzia dei legni, pesante nella scansione. Ma così erano, ai tempi, l’entrata degli Dei nel Walhalla o la fucina di Mime. Niente di nuovo, (salvo la valanga di suono della compagine statunitense): avevamo già conosciuto, alla Scala, il Wagner di Muti. Lo abbiamo ritrovato, immutato. C’è chi apprezza. Non siamo in quel novero.
Meglio l’Hindemith di “Mathis” e, in parte, il Prokofiev della Terza Sinfonia. Ma, nell’insieme, la pur formidabile macchina sonora, perfettamente rispondente al suo direttore, è parsa, in versione-Muti, espressione di un suono “sgarbato” (salvo, appunto, nei pochi minuti di Fedora). Con Solti, anche in là negli anni (del quale Muti in intervista aveva ricordato la monumentalità) la ricordavamo (ad esempio in una meravigliosa Prima Sinfonia di Beethoven) più ricca di guizzi e di “humour” sonoro, pur nella potenza caratteristica. E, se penso al sorprendente Beethoven appena ascoltato da parte di Chailly, le differenze anagrafiche fra i due direttori italiani (una decina d’anni) sembravano allargarsi sul piano dello stile interpretativo, dell’”essere direttore ed interprete qui e oggi”. Il Prokofiev di Muti, ma tutto il concerto, quasi ineccepibile sul piano esecutivo (“quasi”: l’acustica “chiusa” del teatrone milanese non è certo ideale, per la corazzata americana), mi è parso irrimediabilmente “datato” sul piano dello stile. Lo è l’intero attuale atteggiamento, musicale e non, del Maestro pugliese (che pure, fisicamente, porta piuttosto bene i suoi anni). Fa musica, e si esprime, come un nonno invecchiato che continui a ripetere gli stessi concetti. Spento il fantastico slancio di gesto ed espressione di altri suoi anni, il direttore è come “distaccato” e il passo musicale invariabilmente pesante, governa la macchina fuoriserie a sua disposizione, ma l’espressività è stanca ed un po’ inerte, con un che di nostalgico che, alla fine, mette malinconia. Ne è specchio la – contenuta, stavolta, ma ossessiva ripetizione/ricordo verbale de “il mio maestro Antonino Votto”, anche questa sera pronunciata presentando il bis. Da tutto questo, sono uscito non-allegro, ma per l’appunto, un po’ malinconico. Un po’ come un nipotino che, essendo andato a visitare il nonno, si fosse trovato a sentirsi ripetere le stesse cose già sentite mille volte. Ci sono persone anziane all’anagrafe, ma giovani “dentro” (fra i direttori – ne abbiamo parlato in questi giorni – mi torna in mente l’incredibile Herbert Blomstedt, un vulcano interpretativo di 92 anni). Ci sono persone, anche artisti, moderatamente anziani, ma “vecchi” dentro. Ecco: l’attuale Muti, almeno questa sera, mi è parso un po’ “così”.
marco vizzardelli
Confesso un po’ di delusione per il concerto di ieri sera; il maestro non è più lui!! Gesto moderato, freddezza e distacco; anzi, sembrava persino svogliato! Tutto di grande livello, orchestra quasi impeccabile, salvo che nell’ouverture dell’Olandese, brutto suono, ottoni non perfetti (il pezzo peggio riuscito della serata). Hindemith reso bene nel suo composto classicismo che non avrebbe incendiato comunque la sala; Prokofiev troppo chiassoso con perdita del dettaglio, meglio nei passaggi non a piena orchestra, ma mancava la teatralità della partitura, che, ricordiamolo, viene da un recupero dopo la mancata rappresentazione dell’Angelo di Fuoco.
Alla fine il bis offerto al pubblico con l’interludio dall’atto II di Fedora, preceduto da un breve discorso che ho colto poco dalla prima galleria ma che era un auspicio per la riapertura del Teatro Lirico, è stato il momento più affettuoso e comunicativo di tutta la serata, come aver ritrovato finalmente il vero Riccardo Muti ascoltato tante volte da quello stesso podio.
OT
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Per debolezza di salute non riesco a dilungarmi come vorrei, ma ai miei occhi e alle mie orecchie si tratta di una interpretazione storica: sono uscita dal Costanzi con l’impressione di aver sentito un Bellini rivoluzionato, esattamente come più di quaranta anni fa mi fece ugual impressione di novità il Wagner diretto da Karajan. Gli dèi della musica ci conservino a lungo Daniele Gatti.
Qui l’audio (non so quanto buono perché non l’ho ancora ascoltato) di questa serata miracolosa: https://www.raiplayradio.it/audio/2020/01/RADIO3-SUITE—IL-CARTELLONE-Bellini-i-Capuleti-e-i-Montecchi–7656a7bc-ecf8-4bff-913d-6d18705387a2.html.
OT
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I CAPULETI E I MONTECCHI
Teatro Costanzi, Roma 23.01.2020
Per debolezza di salute non riesco a dilungarmi come vorrei, ma ai miei occhi e alle mie orecchie si tratta di una interpretazione storica: sono uscita dal Costanzi con l’impressione di aver sentito un Bellini rivoluzionato, esattamente come più di quaranta anni fa mi fece ugual impressione di novità il Wagner diretto da Karajan. Gli dèi della musica ci conservino a lungo Daniele Gatti.
https://www.raiplayradio.it/audio/2020/01/RADIO3-SUITE—IL-CARTELLONE-Bellini-i-Capuleti-e-i-Montecchi–7656a7bc-ecf8-4bff-913d-6d18705387a2.html
I CAPULETI E I MONTECCHI -GATTI-.ROMA
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Il Bellini di Daniele Gatti è un mondo di disegni musicali e di forme che si fanno drammaturgia, quindi un mondo classico. Ma è un mondo azzurrino, una drammaturgia di suono che talora si accende ma più spesso sfuma fin quasi all’impercettibiltà, velandosi di una tenerezza infinita: quindi è un mondo classico venato di romanticismo (ne parla Gatti, con Alberto Mattioli, nella bella intervista pubblicata sul programma di sala). E questa è l’essenza di Bellini, del Bellini dei Capuleti e Montecchi in particolare. Gatti ha chiesto ed ottenuto, dall’orchestra dell’Opera di Roma (fantastica: ascoltare ottavino – Lorenzo Marruchi, anche da guardare se avete il posto in alto – e clarinetto, e arpe, e lo sfarinare degli archi: è pittura musicale) , dal coro (che il direttore ha voluto come “velato”, nella sonorità) e dal cast vocale un canto che si fa suono puro e linea, rotondo ma tenero, un canto “intimo” perfino negli istanti eroici. Un suono di voci e strumenti particolarissimo, frutto evidente di un lavoro capillare svolto in prova con l’orchestra e con i cantanti. Questa è una drammaturgia fatta di lnulla, linee e tinte che “passano”, in continuo dialogo e sostegno reciproco, dall’orchestra alle voci. Un’orchestra talora impalpabile ma che “c’è” e sempre delinea e sostiene, e voci che si alzano – ma mai diventando “grandi” – nell’invettiva, o si inteneriscono nel languore amoroso, fino a sfumare, nell’estinzione d’amore conclusiva. Romeo morirà in un sussurro, e Giulietta si abbandonerà su dilui, nell’ultimo respiro, nell’azzurro di un mondo amoroso, nel bianco di nozze e di morte.
Gatti ha le voci “giuste” per realizzare un Bellini così. Non voci “spettacolari”, ma tenere, celesti e bianche come la drammaturgia musicale che qui si esprime . Su tutti, secondo noi, il Romeo-rivelazione di Vasilisa Berghanskaya (ci dicono già “prenotata” in un prossimo Mosé rossiniano a Pesaro), che ha una vocalità ed un’espressività personalissime, brunita ed ambrata in basso e forte in alto di un vibrato usato benissimo: quel vibrato che diventa, appunto, sussurro struggente nell’addio di morte (un suono che si spegne, si estingue) dopo esser stato “vibrazione del cuore” nelle guerre d’amore. Ne è esatto contraltare l’argenteo, azzurrino e tenerissimo canto della voce di Mariangela Sicilia, nella quale perfino un’ombra di fragilità nel registro alto si fa (perché la mano direttoriale è magistrale) strumento di dolore, di struggimento d’amore, alla fine di estinzione. Ed è esatto contraltare a due voci femminili di questo tipo la tenorilità ben presente ma mai eccessiva nella sonorità, anche laddove si trovi ad inveire contro il rivale, del Tebaldo di Ivan Ayos Rivas. E, nella fusione delle due voci, è bellissimo – secondo noi uno dei momenti massimi di questa lettura di Capuleti – il duetto di Romeo e Tebaldo, rivali amorosi entrambi sconfitti, sullo sfondo del velo di coro che è l’inno funebre a Giulietta addormentata. Un momento di sonorità magistralmente fuse, coro e orchestra soffusi a far schermo alle voci, che è anche l’aspetto più riuscito della regia-scenografia di Denis Krief. Una delle sue tipiche, stilizzate ed eleganti messe in scena molte volte viste (e un po’ ripetitive, nelle scelte espressive tipiche di questo regista) nella sua lunga militanza nei nostro teatri d’opera. Qui, bella nelle strutture lignee che a “accennano” la piazza veronese e in quel “sipario” che divide le sonorità nel succitato duetto con coro Tebaldo-Romeo. Non sempre compiuta, invece, nel lavoro sui personaggi (proprio la morte di Giulietta, alla fine, ci è parsa un che di non chiaro e non risolto). Nicola Ulivieri (Lorenzo) e Alessio Cacciamani (Capellio) sono le altre parti di una realizzazione dei Capuleti nella quale, per la netta scelta interpretativa del direttore, la bellezza – bel-canto – si fa teatro di colori, di sfumature, di linee, di suoni.
Fino al 6 febbraio ( 1 febbraio e ultima replica con modifiche di cast) all’Opera di Roma.
marco vizzardelli