La serata si conclude con un franco successo, dopo che prima dell’intervallo la temperatura del pubblico era prossima allo zero.
Mi è sembrata una prova dignitosa, nel complesso, malgrado l’Ottava un po’ in bianco e nero. Egmont slanciato ma non sufficientemente esplosivo. Della Sinfonia del Destino mi ha convinto il primo movimento, il resto molta noia anche se confezionata meglio rispetto ad altre volte.
Osservo che col vario ottimo Beethoven che si può ascoltare oggi in giro (Currentzis, Jarvi, Franck, Jurowski, Gatti, Pappano, Petrenko, Antonini, Salonen), non riesco a individuare in quello di Chailly qualcosa di veramente significativo.
anche io il grande momento l’ho colto nel primo movimento della Quinta: teso, epico, saettante. tra i migliori uditi in Scala. il resto alta fattura ma poca sostanza, e soprattutto quel meccanismo dove sembra che si schiacci un pulsante, tanto esibito è. da questo punto di vista una Ottava inutile e irritante.
l’orchestra ha presentato ancora una volta magagne nei corni (prima ripresa del tema del destino totalmente in vacca), fiati imprecisi nelle entrate con un ottavino irritante nel suo protagonismo, che si tratti di scelta direttoriale o di iniziativa dello strumentista poco cambia.
bizzarre le reazioni del pubblico, che applaude freddissimamente la Ottava e tributa un trionfo alla Quinta: non è che al turno A più che le esecuzioni si giudicano i brani in quanto tali?
Molto semplicemente: questa sera alla Scala si è vissuta una tappa di storia dell’interpretazione della musica di Beethoven. E, siccome segue immediatamente, in un concerto, l’episodio di storia dell’interpretazione operistica, della musica di Puccini, vissuto con Tosca, e siccome il musicista-interprete in questione è il medesimo: il Maestro Riccardo Chailly, forse è il caso che ognuno di noi azzeri sue opinioni, visioni, preferenze o quant’altro, fermandosi un istante e riflettendo.
Il concerto di questa sera si componeva di tre brani. Mettiamo pure al netto – ma interessantissima, nell’impostazione metronomica di Chailly! – una Ottava sinfonia di Beethoven probabilmente bisognosa, per esprimersi compiutamente, delle due repliche (come accade, con la Filarmonica della Scala, alla prima serata dei concerti. e qui siamo severi, lo siamo stati anche di recente, eccedendo nei modi (ma il recente concerto-Carydis era per più versi irritante), perché li vorremmo pronti e reattivi fin da subito, una orchestra professionista lo deve essere fin dal “turno A”, che non è una prova di assestamento, ma è già il concerto!).
Ciò detto, con l’ouverture Egmont, eravamo già entrati (prima che con il clou della serata) nella storia grande. Dalla bocca di Riccardo Chailly è sortita questa sera, davanti alle nostre orecchie dopo il concerto, una meraviglia assoluta (di quelle che i quotidiani raccoglitori di luoghi comuni non vi riferiranno mai): . Meraviglioso, e meravigliosa descrizione del direttore stesso della memorabile lettura-esecuzione di Egmont: un’epopea, nelle mani di Chailly, di una forza “plastica” ed immaginifica avvinghiante, culminata, ed è stato un leit-motiv musicale della serata, perché ritrovato, con formidabile intelligenza programmatica, nella Quinta sinfonia, nella magistrale, doppia uscita concertante dell’ottavino, non solo evidente, come quasi sempre avviene o dovrebbe avvenire, nella chiusa del brano, ma saettante sul tessuto orchestrale nel crescendo che va al plenum conclusivo, una epifania di luce ed eroismo. Ancora, le parole di Chailly: . Esatto ed eseguito (qui orchestra magnifica) con forza ed intelligenza dirompenti.
Della incredibile, indimenticabile lettura-esecuzione della Quinta sinfonia, da un lato mi veniva di scriver di getto “è la massima ch’io abbia ascoltato nella vita”, ma detta così sembra una tipica manifestazione del Vizzardelli sulle ali dell’entusiasmo… non fosse che, mentre ci riflettevo davanti ad una sublime cassoeula con barbera, dopo il concerto, mi è sovvenuto che, se lo dico, ho buone motivazioni biografiche di ascoltatore innamorato della musica, per asserirlo, oltre a quelle legate all’esecuzione in se stessa. Che è stata un letterale prodigio di tempi, dinamiche, pazzesca concertazione, plasticità scultorea, colore orchestrale, slancio epico-ideale. Il “metronomo beethoveniano”, molto programmatico nella avvincente Ottava (ma da riascoltare rodata e lo faremo e ne parleremo, perché a questa meraviglia di concerto andiamo a tutte e tre le sere!) qui non è in realtà molto più serrato che in altre esecuzioni, tanto più in anni di furore filologico (Chailly mantiene un suono orchestrale da grande orchestra d’oggi, pur sorvegliando il vibrato). Ma sono l’accento, lo sbalzo plastico, la misura delle dinamiche (secondo movimento da antologia) la forza ideale ed esecutiva, l’immersione totale, ed esaltante, in questo linguaggio e nel testo musicale e nei suoi slanci poetici, a portare questa Quinta di Chailly un passo avanti a tutto quanto abbiamo fin qui ascoltato, nel tema. Ed è qui che motiviamo, anche in autobiografia, l’entusiasmo espresso. Davanti alla cassoeula mirabile del Ristorante Galleria (pubblicità non pagata e assolutamente voluta) mi è, di colpo, sovvenuto che il mio primo concerto dal vivo è stato… la Quinta di Beethoven alla Scala diretta da Herbert Von Karajan con i Berliner (prima parte: Apollon Musagete di Stravinsky), in palco alla Scala con i miei zii Paolo e Carla, con ricordo della tinta azzurrina dei Berliner del Sommo, e di lui, HvK , sommerso da un’ovazione talmente interminabile da costringerlo ad uscire sul palco con il cappotto, per dire. sorridendo “vi prego, lasciatemi andare”.
Più adulto e più netto il ricordo di altre due Quinte capitali: Abbado a Vienna, il grande Claudio nello storico ciclo post-malattia vissuto con i Berliner anche a Roma, e la Quinta aveva uno slancio ideale conclusivo tale da portare un’intera sala alle lacrime. E, straordinario capitolo di storia recente dell’interpretazione beethoveniana, la Quinta “di” Paavo Jarvi con i suoi Kammer-sinfonici di Brema, trionfante nel ciclo completo eseguito a Salisburgo e da me ascoltata anche a Stresa, che si accomunava a questa di Chailly nella straordinaria concertazione dell’ottavino nel finale: solo che con Jarvi i ricami “impazziti” del legno sortivano da un sottile suono “filologico”, in Chailly, in maniera letteralmente pazzesca (andateci e ascoltate!) dal plenum di un suono “moderno! Anche, ma non solo per questo, cioé per tutta una condotta esecutiva-interpretativa che pone il dettato di Beethoven un ulteriore passo avanti rispetto a quanto di eccelso abbiamo ascoltato nella vita, vi diciamo: andate ad ascoltare questa Quinta, e l’intero concerto. Pubblico, ed era un Turno A della Scala, in giusto delirio d’entusiasmo. Al termine… della spasmodica energia del primo movimento (cosa non è quella chiamata finale del tema del destino, sbalzata dal corno!), la voce storica del Cesarino si è levata, cogliendo l’attimo: . Il tutto è di buonissimo auspicio per l’imminente tournèe. Bene. noi, anzi io, che tanto e tanto ho eccepito e criticato, sottoscrivo e mi associo, con gioia. Dopo la formidabile Tosca e insieme a lei, questo Beethoven appare un segno di svolta, di felicità direttiva ed espressiva raggiunta, o, nelle parole che abbiamo ascoltato da Chailly medesimo “i segnali di un lavoro che stiamo svolgendo”. C’è stato, e lo abbiamo detto in tutti i modi (non i quotidiani, che non dicono quasi più nulla e fan troppa politica di piaggeria, peraltro troppe volte richiesta dalle redazioni stesse), un tempo di fatica evolutiva, del direttore e del luogo, del direttore “nel” luogo. Siamo entrati – con felicità di chi ascolta – nel tempo della grazia e dell’appropriazione “da direttore musicale” delle forze a sua disposizione. Dalla platea (o dai palchi o dalla galleria) applaudiamo – applaudo – con gioia. E mi vien da aggiungere che, rispetto anche solo a qualche mese fa, adesso l’attesa per un prossimo evento in loco – Salome – ha un’intensità diversa.
Grazia Tremolada, Milanogennaio 17, 2020 a 8:29 am#
Non ero al concerto, per cui non entro nel merito, anche se ammetto di apprezzare tantissimo Chailly in Beethoven – quell’integrale di Lipsia!!! -, per cui non fatico a immedesimarmi nel pensiero di Marco. Andrò stasera.
Mi irrita invece tantissimo il fare passare per storica o anche solo ottima una direzione della «Tosca» leziosa, antiteatrale, ossessiva. Una interpretazione ammorbante e didascalica, di fronte alla quale le precedenti di Wellber e Bychkov giganteggiano (per non parlare dei cast o di come Livermore e il suo kitsch letteralmente spariscano di fronte a Bondy e Romconi). Lo dico per amore di verità.
Ritrascrivo perché, cpme tecnicamente accade, il blog non prende le virgolette del discorso diretto e mi erano saltate le parole che Chailly stesso mi ha detto, all’uscita dal concerto. Scusate, trascrivo.
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Molto semplicemente: questa sera alla Scala si è vissuta una tappa di storia dell’interpretazione della musica di Beethoven. E, siccome segue immediatamente, in un concerto, l’episodio di storia dell’interpretazione operistica, della musica di Puccini, vissuto con Tosca, e siccome il musicista-interprete in questione è il medesimo: il Maestro Riccardo Chailly, forse è il caso che ognuno di noi, e lo dico per la seconda volta in pochi giorni a me stesso prima di tutto, metta fra parentesi sue opinioni, visioni, preferenze o quant’altro, fermandosi un istante e riflettendo.
Il concerto di questa sera si componeva di tre brani. Mettiamo pure al netto – ma interessantissima, nell’impostazione metronomica di Chailly! – una Ottava sinfonia di Beethoven probabilmente bisognosa, per esprimersi compiutamente, delle due repliche (come accade, con la Filarmonica della Scala, alla prima serata dei concerti. e qui siamo severi, lo siamo stati anche di recente, eccedendo nei modi (ma il recente concerto-Carydis era per più versi irritante), perché li vorremmo pronti e reattivi fin da subito, una orchestra professionista lo deve essere fin dal “turno A”, che non è una prova di assestamento, ma è già il concerto!).
Ciò detto, con l’ouverture Egmont, eravamo già entrati (prima che con il clou della serata) nella storia grande. Dalla bocca di Riccardo Chailly è sortita questa sera, davanti alle nostre orecchie dopo il concerto, una meraviglia assoluta (di quelle che i quotidiani raccoglitori di luoghi comuni non vi riferiranno mai):”la si chiama ouverture, ma l’ouverture per Egmont è già, in realtà, in se stessa, un poema sinfonico nel senso in cui, poi, Richard Strauss lo esalterà” . Meraviglioso, e meravigliosa descrizione del direttore stesso della memorabile lettura-esecuzione di Egmont: un’epopea, nelle mani di Chailly, di una forza “plastica” ed immaginifica avvinghiante, culminata, ed è stato un leit-motiv musicale della serata, perché ritrovato, con formidabile intelligenza programmatica, nella Quinta sinfonia, nella magistrale, doppia uscita concertante dell’ottavino, non solo evidente, come quasi sempre avviene o dovrebbe avvenire, nella chiusa del brano, ma saettante sul tessuto orchestrale nel crescendo che va al plenum conclusivo, una epifania di luce ed eroismo. Ancora, le parole di Chailly: “Egmont è un percorso dal dramma alla luce” . Esatto ed eseguito (qui orchestra magnifica) con forza ed intelligenza dirompenti.
Della incredibile, indimenticabile lettura-esecuzione della Quinta sinfonia, da un lato mi veniva di scriver di getto “è la massima ch’io abbia ascoltato nella vita”, ma detta così sembra una tipica manifestazione del Vizzardelli sulle ali dell’entusiasmo… non fosse che, mentre ci riflettevo davanti ad una sublime cassoeula con barbera, dopo il concerto, mi è sovvenuto che, se lo dico, ho buone motivazioni biografiche di ascoltatore innamorato della musica, per asserirlo, oltre a quelle legate all’esecuzione in se stessa. Che è stata un letterale prodigio di tempi, dinamiche, pazzesca concertazione, plasticità scultorea, colore orchestrale, slancio epico-ideale. Il “metronomo beethoveniano”, molto programmatico nella avvincente Ottava (ma da riascoltare rodata e lo faremo e ne parleremo, perché a questa meraviglia di concerto andiamo a tutte e tre le sere!) qui non è in realtà molto più serrato che in altre esecuzioni, tanto più in anni di furore filologico (Chailly mantiene un suono orchestrale da grande orchestra d’oggi, pur sorvegliando il vibrato). Ma sono l’accento, lo sbalzo plastico, la misura delle dinamiche (secondo movimento da antologia) la forza ideale ed esecutiva, l’immersione totale, ed esaltante, in questo linguaggio e nel testo musicale e nei suoi slanci poetici, a portare questa Quinta di Chailly un passo avanti a tutto quanto abbiamo fin qui ascoltato, nel tema. Ed è qui che motiviamo, anche in autobiografia, l’entusiasmo espresso. Davanti alla cassoeula mirabile del Ristorante Galleria (pubblicità non pagata e assolutamente voluta) mi è, di colpo, sovvenuto che il mio primo concerto dal vivo è stato… la Quinta di Beethoven alla Scala diretta da Herbert Von Karajan con i Berliner (prima parte: Apollon Musagete di Stravinsky), in palco alla Scala con i miei zii Paolo e Carla, con ricordo della tinta azzurrina dei Berliner del Sommo, e di lui, HvK , sommerso da un’ovazione talmente interminabile da costringerlo ad uscire sul palco con il cappotto, per dire. sorridendo “vi prego, lasciatemi andare”.
Più adulto e più netto il ricordo di altre due Quinte capitali: Abbado a Vienna, il grande Claudio nello storico ciclo post-malattia vissuto con i Berliner anche a Roma, e la Quinta aveva uno slancio ideale conclusivo tale da portare un’intera sala alle lacrime. E, straordinario capitolo di storia recente dell’interpretazione beethoveniana, la Quinta “di” Paavo Jarvi con i suoi Kammer-sinfonici di Brema, trionfante nel ciclo completo eseguito a Salisburgo e da me ascoltata anche a Stresa, che si accomunava a questa di Chailly nella straordinaria concertazione dell’ottavino nel finale: solo che con Jarvi i ricami “impazziti” del legno sortivano da un sottile suono “filologico”, in Chailly, in maniera letteralmente pazzesca (andateci e ascoltate!) dal plenum di un suono “moderno! Anche, ma non solo per questo, cioé per tutta una condotta esecutiva-interpretativa che pone il dettato di Beethoven un ulteriore passo avanti rispetto a quanto di eccelso abbiamo ascoltato nella vita, vi diciamo: andate ad ascoltare questa Quinta, e l’intero concerto. Pubblico, ed era un Turno A della Scala, in giusto delirio d’entusiasmo. Al termine… della spasmodica energia del primo movimento (cosa non è quella chiamata finale del tema del destino, sbalzata dal corno!), la voce storica del Cesarino si è levata, cogliendo l’attimo: . Il tutto è di buonissimo auspicio per l’imminente tournèe. Bene. noi, anzi io, che tanto e tanto ho eccepito e criticato, sottoscrivo e mi associo, con gioia. Dopo la formidabile Tosca e insieme a lei, questo Beethoven (in replica stasera e domenica) appare un segno di svolta, di felicità direttiva ed espressiva raggiunta, o, nelle parole che abbiamo ascoltato da Chailly medesimo “i segnali di un lavoro che stiamo svolgendo”. C’è stato, e lo abbiamo detto in tutti i modi (non i quotidiani, che non dicono quasi più nulla e fan troppa politica di piaggeria, peraltro troppe volte richiesta dalle redazioni stesse), un tempo di fatica evolutiva, del direttore e del luogo, del direttore “nel” luogo. Siamo entrati – con felicità di chi ascolta – nel tempo della grazia e dell’appropriazione “da direttore musicale” delle forze a sua disposizione. Dalla platea (o dai palchi o dalla galleria) applaudiamo – applaudo – con gioia. E mi vien da aggiungere che, rispetto anche solo a qualche mese fa, adesso l’attesa per un prossimo evento in loco – Salome – ha un’intensità diversa.
Cara Grazia, con me parlando di Wellber sfondi una porta spalancata: lo adoro e sarò a Palermo a fine mese per Parsifal da lui diretto. La sua direzione di Tosca alla Scala fu eccezionale ma non fu capita, in loco. Peraltro, a mio avviso, la lettura di Chailly è stata, letteralmente storica. Quanto ai registi, ho parere diverso dal tuo: ho apprezzato Livermore, apprezzai (ma non con l’entusiasmo provato per altre sue messe in scena) Ronconi), mentre trovo la Tosca di Bondy uno dei più brutti spettacoli della storia della messa in scena operistica. fu giustamente fischiata qui come negli Stati Uniti e in tutti i paesi nei quali ha infestato i teatri. Un vero horror, la Tosca-Bondy.
Riferisco con costernazione che ieri in occasione dell’apparizione di Plácido Domingo alla Staatsoper di Berlino come Giorgio Germont, fuori dall’edificio un gruppo di femministe ha manifestato chiedendo ai politici locali e alla dirigenza che si impedisse al cantante di esibirsi. Il sovrintendente Schulz ha dichiarato che non esistendo cause penali in corso né obiezioni specifiche da parte dei lavoratori dell’istituzione non ha ritenuto giusto rompere un contratto già esistente. Al netto di questa tremenda società dell’apparenza e della virtualità, per la quale conta sempre e comunque apparire e dunque approfittare di occasioni per far vedere che si esiste, continuo a sperare in una superiorità civile e giuridica europea, e osservo con preoccupazione l’infiltrarsi anche nel vecchio continente di mentalità giustizialiste, puritane e moraliste tipicamente nordamericane. Che gli dei ci preservino da certe derive.
a) grazie della notizia. Sì, ormai la deriva puritana moralista in atto nei paesi anglosassoni è delirante, bisognava capirlo da subito, invece anche in Italia molte direzioni di quotidiani cavalcano la polemica, so di giornalisti che volendo scrivere a difesa degli artisti bestialmente attaccati dal fanatismo, hanno trovato opposizione dalle direzioni stesse dei giornali in cui lavorano. Sono convinto che occorra, da parte di noi pubblico, una opposizione ai fanatici in forma di difesa degli artisti vittime di quella che nel tempo ha preso la forma di una vera caccia alle streghe d’oscurantistica memoria.
b) tornando al Beethoven di Chailly. Il ricamo dell’ottavino in Egmont e nella Quinta non è un arbitrio del solista, ma sta scritto in Beethoven. Il direttore cui si deve la più filologica lettura odierna della Quinta, Paavo Jarvi nella sua formidabile integrale delle sinfonie eseguita dal vivo e incisa con la Kammersimphonie di Brema, nel finale della Quinta fa eseguire allo stesso modo questo formidabile passaggio di luce epica dell’ottavino. E’ Beethoven, non è un arbitrio, e Chailly lo ha giustamente evidenziato
LA SCALA COLOR PORCELLIN-CICCIOLINA-CAIRO & Co.
—————————————————————————-
Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, aaaaaah!!!!!!
“Complimenti”, per così dire, a Cairo, Corriere e Gazzetta, e Sala, e direzione teatro e magnaquattrini di varia specie, per la Scala Tutta Color Rosa Scrofa Cicciolina, da qui al Giro d’Italia!!!
Hop, hop, pedalate, alla faccia del Primo Teatro Lirico d’Italia!
Cosa non si fa, per i soldi!!!!!
Che pena, anzi no… fa ridere! Ah, ah, ah ,ah, ah,ah!!!!! Money money, money, è ormai un puro Cabaret gnam-gnam turistico. Altro che primo teatro!!
La serata si conclude con un franco successo, dopo che prima dell’intervallo la temperatura del pubblico era prossima allo zero.
Mi è sembrata una prova dignitosa, nel complesso, malgrado l’Ottava un po’ in bianco e nero. Egmont slanciato ma non sufficientemente esplosivo. Della Sinfonia del Destino mi ha convinto il primo movimento, il resto molta noia anche se confezionata meglio rispetto ad altre volte.
Osservo che col vario ottimo Beethoven che si può ascoltare oggi in giro (Currentzis, Jarvi, Franck, Jurowski, Gatti, Pappano, Petrenko, Antonini, Salonen), non riesco a individuare in quello di Chailly qualcosa di veramente significativo.
anche io il grande momento l’ho colto nel primo movimento della Quinta: teso, epico, saettante. tra i migliori uditi in Scala. il resto alta fattura ma poca sostanza, e soprattutto quel meccanismo dove sembra che si schiacci un pulsante, tanto esibito è. da questo punto di vista una Ottava inutile e irritante.
l’orchestra ha presentato ancora una volta magagne nei corni (prima ripresa del tema del destino totalmente in vacca), fiati imprecisi nelle entrate con un ottavino irritante nel suo protagonismo, che si tratti di scelta direttoriale o di iniziativa dello strumentista poco cambia.
bizzarre le reazioni del pubblico, che applaude freddissimamente la Ottava e tributa un trionfo alla Quinta: non è che al turno A più che le esecuzioni si giudicano i brani in quanto tali?
Molto semplicemente: questa sera alla Scala si è vissuta una tappa di storia dell’interpretazione della musica di Beethoven. E, siccome segue immediatamente, in un concerto, l’episodio di storia dell’interpretazione operistica, della musica di Puccini, vissuto con Tosca, e siccome il musicista-interprete in questione è il medesimo: il Maestro Riccardo Chailly, forse è il caso che ognuno di noi azzeri sue opinioni, visioni, preferenze o quant’altro, fermandosi un istante e riflettendo.
Il concerto di questa sera si componeva di tre brani. Mettiamo pure al netto – ma interessantissima, nell’impostazione metronomica di Chailly! – una Ottava sinfonia di Beethoven probabilmente bisognosa, per esprimersi compiutamente, delle due repliche (come accade, con la Filarmonica della Scala, alla prima serata dei concerti. e qui siamo severi, lo siamo stati anche di recente, eccedendo nei modi (ma il recente concerto-Carydis era per più versi irritante), perché li vorremmo pronti e reattivi fin da subito, una orchestra professionista lo deve essere fin dal “turno A”, che non è una prova di assestamento, ma è già il concerto!).
Ciò detto, con l’ouverture Egmont, eravamo già entrati (prima che con il clou della serata) nella storia grande. Dalla bocca di Riccardo Chailly è sortita questa sera, davanti alle nostre orecchie dopo il concerto, una meraviglia assoluta (di quelle che i quotidiani raccoglitori di luoghi comuni non vi riferiranno mai): . Meraviglioso, e meravigliosa descrizione del direttore stesso della memorabile lettura-esecuzione di Egmont: un’epopea, nelle mani di Chailly, di una forza “plastica” ed immaginifica avvinghiante, culminata, ed è stato un leit-motiv musicale della serata, perché ritrovato, con formidabile intelligenza programmatica, nella Quinta sinfonia, nella magistrale, doppia uscita concertante dell’ottavino, non solo evidente, come quasi sempre avviene o dovrebbe avvenire, nella chiusa del brano, ma saettante sul tessuto orchestrale nel crescendo che va al plenum conclusivo, una epifania di luce ed eroismo. Ancora, le parole di Chailly: . Esatto ed eseguito (qui orchestra magnifica) con forza ed intelligenza dirompenti.
Della incredibile, indimenticabile lettura-esecuzione della Quinta sinfonia, da un lato mi veniva di scriver di getto “è la massima ch’io abbia ascoltato nella vita”, ma detta così sembra una tipica manifestazione del Vizzardelli sulle ali dell’entusiasmo… non fosse che, mentre ci riflettevo davanti ad una sublime cassoeula con barbera, dopo il concerto, mi è sovvenuto che, se lo dico, ho buone motivazioni biografiche di ascoltatore innamorato della musica, per asserirlo, oltre a quelle legate all’esecuzione in se stessa. Che è stata un letterale prodigio di tempi, dinamiche, pazzesca concertazione, plasticità scultorea, colore orchestrale, slancio epico-ideale. Il “metronomo beethoveniano”, molto programmatico nella avvincente Ottava (ma da riascoltare rodata e lo faremo e ne parleremo, perché a questa meraviglia di concerto andiamo a tutte e tre le sere!) qui non è in realtà molto più serrato che in altre esecuzioni, tanto più in anni di furore filologico (Chailly mantiene un suono orchestrale da grande orchestra d’oggi, pur sorvegliando il vibrato). Ma sono l’accento, lo sbalzo plastico, la misura delle dinamiche (secondo movimento da antologia) la forza ideale ed esecutiva, l’immersione totale, ed esaltante, in questo linguaggio e nel testo musicale e nei suoi slanci poetici, a portare questa Quinta di Chailly un passo avanti a tutto quanto abbiamo fin qui ascoltato, nel tema. Ed è qui che motiviamo, anche in autobiografia, l’entusiasmo espresso. Davanti alla cassoeula mirabile del Ristorante Galleria (pubblicità non pagata e assolutamente voluta) mi è, di colpo, sovvenuto che il mio primo concerto dal vivo è stato… la Quinta di Beethoven alla Scala diretta da Herbert Von Karajan con i Berliner (prima parte: Apollon Musagete di Stravinsky), in palco alla Scala con i miei zii Paolo e Carla, con ricordo della tinta azzurrina dei Berliner del Sommo, e di lui, HvK , sommerso da un’ovazione talmente interminabile da costringerlo ad uscire sul palco con il cappotto, per dire. sorridendo “vi prego, lasciatemi andare”.
Più adulto e più netto il ricordo di altre due Quinte capitali: Abbado a Vienna, il grande Claudio nello storico ciclo post-malattia vissuto con i Berliner anche a Roma, e la Quinta aveva uno slancio ideale conclusivo tale da portare un’intera sala alle lacrime. E, straordinario capitolo di storia recente dell’interpretazione beethoveniana, la Quinta “di” Paavo Jarvi con i suoi Kammer-sinfonici di Brema, trionfante nel ciclo completo eseguito a Salisburgo e da me ascoltata anche a Stresa, che si accomunava a questa di Chailly nella straordinaria concertazione dell’ottavino nel finale: solo che con Jarvi i ricami “impazziti” del legno sortivano da un sottile suono “filologico”, in Chailly, in maniera letteralmente pazzesca (andateci e ascoltate!) dal plenum di un suono “moderno! Anche, ma non solo per questo, cioé per tutta una condotta esecutiva-interpretativa che pone il dettato di Beethoven un ulteriore passo avanti rispetto a quanto di eccelso abbiamo ascoltato nella vita, vi diciamo: andate ad ascoltare questa Quinta, e l’intero concerto. Pubblico, ed era un Turno A della Scala, in giusto delirio d’entusiasmo. Al termine… della spasmodica energia del primo movimento (cosa non è quella chiamata finale del tema del destino, sbalzata dal corno!), la voce storica del Cesarino si è levata, cogliendo l’attimo: . Il tutto è di buonissimo auspicio per l’imminente tournèe. Bene. noi, anzi io, che tanto e tanto ho eccepito e criticato, sottoscrivo e mi associo, con gioia. Dopo la formidabile Tosca e insieme a lei, questo Beethoven appare un segno di svolta, di felicità direttiva ed espressiva raggiunta, o, nelle parole che abbiamo ascoltato da Chailly medesimo “i segnali di un lavoro che stiamo svolgendo”. C’è stato, e lo abbiamo detto in tutti i modi (non i quotidiani, che non dicono quasi più nulla e fan troppa politica di piaggeria, peraltro troppe volte richiesta dalle redazioni stesse), un tempo di fatica evolutiva, del direttore e del luogo, del direttore “nel” luogo. Siamo entrati – con felicità di chi ascolta – nel tempo della grazia e dell’appropriazione “da direttore musicale” delle forze a sua disposizione. Dalla platea (o dai palchi o dalla galleria) applaudiamo – applaudo – con gioia. E mi vien da aggiungere che, rispetto anche solo a qualche mese fa, adesso l’attesa per un prossimo evento in loco – Salome – ha un’intensità diversa.
marco vizzardelli
Non ero al concerto, per cui non entro nel merito, anche se ammetto di apprezzare tantissimo Chailly in Beethoven – quell’integrale di Lipsia!!! -, per cui non fatico a immedesimarmi nel pensiero di Marco. Andrò stasera.
Mi irrita invece tantissimo il fare passare per storica o anche solo ottima una direzione della «Tosca» leziosa, antiteatrale, ossessiva. Una interpretazione ammorbante e didascalica, di fronte alla quale le precedenti di Wellber e Bychkov giganteggiano (per non parlare dei cast o di come Livermore e il suo kitsch letteralmente spariscano di fronte a Bondy e Romconi). Lo dico per amore di verità.
Ritrascrivo perché, cpme tecnicamente accade, il blog non prende le virgolette del discorso diretto e mi erano saltate le parole che Chailly stesso mi ha detto, all’uscita dal concerto. Scusate, trascrivo.
——————————————————–
Molto semplicemente: questa sera alla Scala si è vissuta una tappa di storia dell’interpretazione della musica di Beethoven. E, siccome segue immediatamente, in un concerto, l’episodio di storia dell’interpretazione operistica, della musica di Puccini, vissuto con Tosca, e siccome il musicista-interprete in questione è il medesimo: il Maestro Riccardo Chailly, forse è il caso che ognuno di noi, e lo dico per la seconda volta in pochi giorni a me stesso prima di tutto, metta fra parentesi sue opinioni, visioni, preferenze o quant’altro, fermandosi un istante e riflettendo.
Il concerto di questa sera si componeva di tre brani. Mettiamo pure al netto – ma interessantissima, nell’impostazione metronomica di Chailly! – una Ottava sinfonia di Beethoven probabilmente bisognosa, per esprimersi compiutamente, delle due repliche (come accade, con la Filarmonica della Scala, alla prima serata dei concerti. e qui siamo severi, lo siamo stati anche di recente, eccedendo nei modi (ma il recente concerto-Carydis era per più versi irritante), perché li vorremmo pronti e reattivi fin da subito, una orchestra professionista lo deve essere fin dal “turno A”, che non è una prova di assestamento, ma è già il concerto!).
Ciò detto, con l’ouverture Egmont, eravamo già entrati (prima che con il clou della serata) nella storia grande. Dalla bocca di Riccardo Chailly è sortita questa sera, davanti alle nostre orecchie dopo il concerto, una meraviglia assoluta (di quelle che i quotidiani raccoglitori di luoghi comuni non vi riferiranno mai):”la si chiama ouverture, ma l’ouverture per Egmont è già, in realtà, in se stessa, un poema sinfonico nel senso in cui, poi, Richard Strauss lo esalterà” . Meraviglioso, e meravigliosa descrizione del direttore stesso della memorabile lettura-esecuzione di Egmont: un’epopea, nelle mani di Chailly, di una forza “plastica” ed immaginifica avvinghiante, culminata, ed è stato un leit-motiv musicale della serata, perché ritrovato, con formidabile intelligenza programmatica, nella Quinta sinfonia, nella magistrale, doppia uscita concertante dell’ottavino, non solo evidente, come quasi sempre avviene o dovrebbe avvenire, nella chiusa del brano, ma saettante sul tessuto orchestrale nel crescendo che va al plenum conclusivo, una epifania di luce ed eroismo. Ancora, le parole di Chailly: “Egmont è un percorso dal dramma alla luce” . Esatto ed eseguito (qui orchestra magnifica) con forza ed intelligenza dirompenti.
Della incredibile, indimenticabile lettura-esecuzione della Quinta sinfonia, da un lato mi veniva di scriver di getto “è la massima ch’io abbia ascoltato nella vita”, ma detta così sembra una tipica manifestazione del Vizzardelli sulle ali dell’entusiasmo… non fosse che, mentre ci riflettevo davanti ad una sublime cassoeula con barbera, dopo il concerto, mi è sovvenuto che, se lo dico, ho buone motivazioni biografiche di ascoltatore innamorato della musica, per asserirlo, oltre a quelle legate all’esecuzione in se stessa. Che è stata un letterale prodigio di tempi, dinamiche, pazzesca concertazione, plasticità scultorea, colore orchestrale, slancio epico-ideale. Il “metronomo beethoveniano”, molto programmatico nella avvincente Ottava (ma da riascoltare rodata e lo faremo e ne parleremo, perché a questa meraviglia di concerto andiamo a tutte e tre le sere!) qui non è in realtà molto più serrato che in altre esecuzioni, tanto più in anni di furore filologico (Chailly mantiene un suono orchestrale da grande orchestra d’oggi, pur sorvegliando il vibrato). Ma sono l’accento, lo sbalzo plastico, la misura delle dinamiche (secondo movimento da antologia) la forza ideale ed esecutiva, l’immersione totale, ed esaltante, in questo linguaggio e nel testo musicale e nei suoi slanci poetici, a portare questa Quinta di Chailly un passo avanti a tutto quanto abbiamo fin qui ascoltato, nel tema. Ed è qui che motiviamo, anche in autobiografia, l’entusiasmo espresso. Davanti alla cassoeula mirabile del Ristorante Galleria (pubblicità non pagata e assolutamente voluta) mi è, di colpo, sovvenuto che il mio primo concerto dal vivo è stato… la Quinta di Beethoven alla Scala diretta da Herbert Von Karajan con i Berliner (prima parte: Apollon Musagete di Stravinsky), in palco alla Scala con i miei zii Paolo e Carla, con ricordo della tinta azzurrina dei Berliner del Sommo, e di lui, HvK , sommerso da un’ovazione talmente interminabile da costringerlo ad uscire sul palco con il cappotto, per dire. sorridendo “vi prego, lasciatemi andare”.
Più adulto e più netto il ricordo di altre due Quinte capitali: Abbado a Vienna, il grande Claudio nello storico ciclo post-malattia vissuto con i Berliner anche a Roma, e la Quinta aveva uno slancio ideale conclusivo tale da portare un’intera sala alle lacrime. E, straordinario capitolo di storia recente dell’interpretazione beethoveniana, la Quinta “di” Paavo Jarvi con i suoi Kammer-sinfonici di Brema, trionfante nel ciclo completo eseguito a Salisburgo e da me ascoltata anche a Stresa, che si accomunava a questa di Chailly nella straordinaria concertazione dell’ottavino nel finale: solo che con Jarvi i ricami “impazziti” del legno sortivano da un sottile suono “filologico”, in Chailly, in maniera letteralmente pazzesca (andateci e ascoltate!) dal plenum di un suono “moderno! Anche, ma non solo per questo, cioé per tutta una condotta esecutiva-interpretativa che pone il dettato di Beethoven un ulteriore passo avanti rispetto a quanto di eccelso abbiamo ascoltato nella vita, vi diciamo: andate ad ascoltare questa Quinta, e l’intero concerto. Pubblico, ed era un Turno A della Scala, in giusto delirio d’entusiasmo. Al termine… della spasmodica energia del primo movimento (cosa non è quella chiamata finale del tema del destino, sbalzata dal corno!), la voce storica del Cesarino si è levata, cogliendo l’attimo: . Il tutto è di buonissimo auspicio per l’imminente tournèe. Bene. noi, anzi io, che tanto e tanto ho eccepito e criticato, sottoscrivo e mi associo, con gioia. Dopo la formidabile Tosca e insieme a lei, questo Beethoven (in replica stasera e domenica) appare un segno di svolta, di felicità direttiva ed espressiva raggiunta, o, nelle parole che abbiamo ascoltato da Chailly medesimo “i segnali di un lavoro che stiamo svolgendo”. C’è stato, e lo abbiamo detto in tutti i modi (non i quotidiani, che non dicono quasi più nulla e fan troppa politica di piaggeria, peraltro troppe volte richiesta dalle redazioni stesse), un tempo di fatica evolutiva, del direttore e del luogo, del direttore “nel” luogo. Siamo entrati – con felicità di chi ascolta – nel tempo della grazia e dell’appropriazione “da direttore musicale” delle forze a sua disposizione. Dalla platea (o dai palchi o dalla galleria) applaudiamo – applaudo – con gioia. E mi vien da aggiungere che, rispetto anche solo a qualche mese fa, adesso l’attesa per un prossimo evento in loco – Salome – ha un’intensità diversa.
marco vizzardelli
cosa ha urlato il Cesarino? non si legge.
Per Grazia.
Cara Grazia, con me parlando di Wellber sfondi una porta spalancata: lo adoro e sarò a Palermo a fine mese per Parsifal da lui diretto. La sua direzione di Tosca alla Scala fu eccezionale ma non fu capita, in loco. Peraltro, a mio avviso, la lettura di Chailly è stata, letteralmente storica. Quanto ai registi, ho parere diverso dal tuo: ho apprezzato Livermore, apprezzai (ma non con l’entusiasmo provato per altre sue messe in scena) Ronconi), mentre trovo la Tosca di Bondy uno dei più brutti spettacoli della storia della messa in scena operistica. fu giustamente fischiata qui come negli Stati Uniti e in tutti i paesi nei quali ha infestato i teatri. Un vero horror, la Tosca-Bondy.
ciao
matco vizzardelli
OT
Riferisco con costernazione che ieri in occasione dell’apparizione di Plácido Domingo alla Staatsoper di Berlino come Giorgio Germont, fuori dall’edificio un gruppo di femministe ha manifestato chiedendo ai politici locali e alla dirigenza che si impedisse al cantante di esibirsi. Il sovrintendente Schulz ha dichiarato che non esistendo cause penali in corso né obiezioni specifiche da parte dei lavoratori dell’istituzione non ha ritenuto giusto rompere un contratto già esistente. Al netto di questa tremenda società dell’apparenza e della virtualità, per la quale conta sempre e comunque apparire e dunque approfittare di occasioni per far vedere che si esiste, continuo a sperare in una superiorità civile e giuridica europea, e osservo con preoccupazione l’infiltrarsi anche nel vecchio continente di mentalità giustizialiste, puritane e moraliste tipicamente nordamericane. Che gli dei ci preservino da certe derive.
Per der Rote Falke
a) grazie della notizia. Sì, ormai la deriva puritana moralista in atto nei paesi anglosassoni è delirante, bisognava capirlo da subito, invece anche in Italia molte direzioni di quotidiani cavalcano la polemica, so di giornalisti che volendo scrivere a difesa degli artisti bestialmente attaccati dal fanatismo, hanno trovato opposizione dalle direzioni stesse dei giornali in cui lavorano. Sono convinto che occorra, da parte di noi pubblico, una opposizione ai fanatici in forma di difesa degli artisti vittime di quella che nel tempo ha preso la forma di una vera caccia alle streghe d’oscurantistica memoria.
b) tornando al Beethoven di Chailly. Il ricamo dell’ottavino in Egmont e nella Quinta non è un arbitrio del solista, ma sta scritto in Beethoven. Il direttore cui si deve la più filologica lettura odierna della Quinta, Paavo Jarvi nella sua formidabile integrale delle sinfonie eseguita dal vivo e incisa con la Kammersimphonie di Brema, nel finale della Quinta fa eseguire allo stesso modo questo formidabile passaggio di luce epica dell’ottavino. E’ Beethoven, non è un arbitrio, e Chailly lo ha giustamente evidenziato
marco vizzardelli
Grazia tremolada per dire w Bondy e la sua Tosca non puo’che essere un fake
LA SCALA COLOR PORCELLIN-CICCIOLINA-CAIRO & Co.
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Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, aaaaaah!!!!!!
“Complimenti”, per così dire, a Cairo, Corriere e Gazzetta, e Sala, e direzione teatro e magnaquattrini di varia specie, per la Scala Tutta Color Rosa Scrofa Cicciolina, da qui al Giro d’Italia!!!
Hop, hop, pedalate, alla faccia del Primo Teatro Lirico d’Italia!
Cosa non si fa, per i soldi!!!!!
Che pena, anzi no… fa ridere! Ah, ah, ah ,ah, ah,ah!!!!! Money money, money, è ormai un puro Cabaret gnam-gnam turistico. Altro che primo teatro!!
marco vizzardelli