Dal 15 al 25 Novembre 2018
György Kurtág
Samuel Beckett: Fin de partie
scènes et monologues, opéra en un acte
Commissione Teatro alla Scala
Versione drammaturgica di György Kurtág dal dramma di Samuel Beckett
Editore Editio Musica Budapest
Rappresentante per l’Italia Casa Ricordi, Milano
Prima esecuzione mondiale
Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova Produzione Teatro alla Scala in coproduzione con Dutch National Opera, Amsterdam
La Prima del 15 novembre verrà trasmessa in diretta radiofonica su RAI-Radio 3.
Direttore Markus Stenz
Regia Pierre Audi
Scene e costumi Christof Hetzer
Light designer Urs Schönebaum
Drammaturgo Klaus Bertisch
CAST
Hamm Frode Olsen
Clov Leigh Melrose
Nell Hilary Summers
Nagg Leonardo Cortellazzi
45 minuti prima di ogni recita, per i possessori del biglietto, è prevista una introduzione curata dal Professor Franco Pulcini presso il Ridotto dei Palchi “Arturo Toscanini”.
L’OPERA IN POCHE RIGHE
György Kurtág, universalmente considerato tra i maggiori compositori viventi, non aveva mai scritto un’opera. Lo fa all’età di novant’anni, convinto dalla tenacia di Alexander Pereira, applicando il suo stile scarno, concentrato, intensamente espressivo al classico di Samuel Beckett del 1957: un avvenimento la cui portata non investe solo l’ambito musicale ma si estende ai territori del Teatro e della Letteratura. Il titolo, Finale di partita, indica la situazione ricorrente negli scacchi in cui l’esito della partita è segnato ma i giocatori inesperti continuano a muovere i pezzi a vuoto senza rendersi conto che non esiste speranza. In questa situazione si trovano i protagonisti Hamm e Clov, che trascorrono giornate sempre uguali in una casa che condividono con i genitori di Hamm, privi delle gambe e sistemati in due bidoni della spazzatura. La prima assoluta sarà diretta da Markus Stenz, mentre lo spettacolo porta la firma di uno dei più autorevoli registi della scena internazionale, Pierre Audi, che con questo importante progetto debutta alla Scala. I cantanti, che giungeranno alla prima dopo due anni di prove e di attento lavoro sulle minime sfumature del testo e della musica, sono Frode Olsen, Leigh Melrose, Hilary Summers e Leonardo Cortellazzi.
Ricopio il commento di Vizzardelli inserito sotto il post di Elettra:
KURTAG
Allora: sarà un capolavoro e me lo auguro. Ma il battage pubblicitario è al limite del grottesco. Abbiamo sui manifesti-Scala una dichiarazione firmata dal devòto Enrico Girardi in cui siamo informati che si tratta di un capolavoro che cambierà la Storia della Musica. Ancora PRIMA che vada in scena. E’ un po’ troppo. Solito metodo-Scala ma qui stiamo andando oltre. Tutto l’establishment musicale convocato, ma può darsi ci saranno solo loro: Pollini che saluta Chailly che saluta la Moreni che saluta il critico del Corriere che saluta il critico de La Repubblica che saluta il critico di Libero che saluta il critico de Il Giornale che saluta il critico de Il Giorno che saluta il critico de La Stampa che saluta il critico di CD Classic che saluta il Direttore del Conservatorio che saluta il Direttore di Milano Musica che saluta Sgarbi cui frega un beato cavolo che saluta mia nonna, mia zia e mia sorella. L’andazzo preventivo, purtroppo, è questo. Di per se stesso, suggerirebbe una BUATA STORICA, non tanto all’opera (finché non è ascoltata, non PRIMA), ma al sistèma. Possibile che la Scala non cresca mai, lasciando che le cose vadano come vadano, secondo merito non secondo battage del consenso.
Ciò precede i mirabili funambolismi “critici” con i quali un titolo totalmente insignificante, e di ripiego (dovevano essere Vespri Siciliani) quale Attila verrà gabellato dai baciapile come degno di aprire la stagione 18-19. In omaggio ai bisogni del direttore musicale. Non ho parole, anzi ne ho eccome, da tempo.
marco vizzardelli
Ho il biglietto per stasera, vedremo…
Intanto ho scoperto un’incongruenza sulle note di regia dal sito del Teatro alla Scala (http://static.teatroallascala.org/static/upload/fin/fin-de-partie—note-del-regista-pierre-audi.pdf) Vi si dice :
Si potrebbe affermare senza esagerare che a detta di tutti l’Otello di Verdi è più
efficace, dal punto di vista scenico, del dramma originale di Shakespeare. Per ottenere
tale risultato, Verdi e il suo librettista hanno dovuto in un certo senso “tradire”
l’autore per poi rendergli pienamente giustizia, com’è successo anche in seguito
con gli adattamenti operistici del Re Lear da parte di Aribert Reimann e della
Tempesta da parte di Thomas Adès.
In tutti questi casi l’adattamento operistico era concepibile solo attraverso la riscrittura
di un testo completamente nuovo.
Dopo tali adattamenti storici e quelli di Büchner e Wedekind da parte di Alban
Berg (libere rielaborazioni anch’esse), non era più successo che un capolavoro della
letteratura mondiale venisse trasformato in un’opera, fino a Fin de partie di
Kurtág.
Ma come, e Cuore di cane di Bulgakov, messo in musica come opera da Alexander Raskatov, visto proprio alla Scala nella stagione 2012/2013 e oltretutto, se non ricordo male, coproduzione con Amsterdam??!!!
Questa prima passerà senza lasciare alcun segno reale nella storia della musica. Rimarranno però i ricordi di queste terribili trombonate di provincia con cui si cerca mediatamente di nascondere una realtà che è davanti agli occhi di tutti: l’attuale dirigenza scaligera è autrice di un fallimento epocale e di uno dei periodi più miserabili della storia della Scala.
Rispetto a quanto ho scritto in precedenza, devo fare correzione su un punto. La buata storica. No, non si bua, ma si applaude, con cordiale condiscendenza, “il grande compositore dell’avanguardia del secolo scorso”. Un onestissimo artigianato musicale anni ’70 o ’65 o ’72 o ’74 (non oltre, per carità). Alexander Pereira è una simpaticissima persona, alieno, sul piano personale, dalla tradizionale antipatìa di chi approda a ruolo dirigenziale alla Scala, sia artistico sia musicale. Ma ha deciso di fare dei suoi anni scaligeri l’album dei suoi ricordi personali di una (gloriosa) vita nel teatro musicale. Kurtàg compreso. La sfilata dei vecchioni (il che avviene a tal punto che, quando finalmente appare un direttore giovane, e veramente molto bravo, quale il recente Lorenzo Viotti, al sovrintendente-direttore artistico piaccia molto per quella che appare la fisionomia direttoriale “antica”, da novello Giulini: il che gli fa torto, perché il Viotti è bravo e basta).
Torniamo a Kurtàg: in queste due ore di ascolto (confezionato nella sapiente regia-luci: non che si siano dovuti inventare chissaché, ma è tutto ben curato) ci viene squadernato l’alto artigianato fine ‘900 di un melologo (non opera) nel quale voci e orchestra si appoggiano le une sull’altra così come, fin da bimbetti (chi scrive ha 60 anni) alla Scala e altrove ascoltavamo. Il tutto applicato con alto mestiere allo (sconvolgente, quello sì, anche se, magari, gli anni si sentono) materiale letterario di Beckett. Tutto bello tutto giusto (un po’… noiosino, possiamo osare? E Beckett non sarebbe noioso), bravi gli interpreti, anche se il pur appropriato direttore Stenz, ascoltato due sere di fila, in Strauss e Kurtàg, indulge entrambe le volte a scarso controllo degli ottoni, talora laceranti, e a un suono che da bello diventa a tratti fibroso. Ma si esce con un senso di già ascoltato, mille volte nei decenni trascorsi, che contraddice le “epocali” dichiarazioni preventive di battage pubblicitario aziendale. Abbiamo già dato, diversi anni fa. La Scala, secondo noi, non è un luogo di nostalgie personali da ostendere al pubblico. Detto con tutta la simpatia e tenerezza possibili.
marco vizzardelli
P.s. Buon successo, ma difficile da dimensionare: infatti, minor tenerezza e simpatia suscita, nelle gallerie, la ricorrente novità dell’attuale gestione. Qualche lingua cattivella su questo forum li ha ribattezzati, qualche tempo fa, i “Gabriella boys and girls”. Io non so quale sia la matrice reale. Si tratta comunque di una squadra di giovinetti/e che salutano con urletti da concerto rock il finale di ben mirati eventi. Ben mirati e solo quelli. La vecchia claque dei tempi andati aveva un che di più ruspante e innocente. Questi, no.
VERSIONE CORRETTA (spero: scusate, son costretto spesso a far così, per l’assenza di correttore)
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Rispetto a quanto ho scritto in precedenza, devo fare correzione su un punto. La buata storica. No, non si bua, ma si applaude, con cordiale condiscendenza (non di più), “il grande compositore dell’avanguardia del secolo scorso”(copyright Giuseppina Manin, definizione azzeccata). Un onestissimo artigianato musicale anni ’70 o ’65 o ’72 o ’74 (non oltre il 1980, per carità). Alexander Pereira è una simpaticissima persona, alieno, sul piano personale, dalla tradizionale antipatìa di chi approda a ruolo dirigenziale alla Scala, sia artistico sia musicale. Ma ha deciso di fare dei suoi anni scaligeri l’album dei suoi ricordi personali di una (gloriosa) vita nel teatro musicale. Kurtàg compreso. La sfilata dei vecchioni (avviene a tal punto che, quando finalmente appare un direttore giovane, e veramente molto bravo, quale il recente Lorenzo Viotti, viene il dubbio che al sovrintendente-direttore artistico piaccia molto per quella che appare la fisionomia direttoriale “antica”, da novello Giulini: il che gli fa torto, perché il Viotti è bravo e basta).
Torniamo a Kurtàg: in queste due ore di ascolto (confezionato nella sapiente regia-luci: non che si siano dovuti inventare chissaché, ma è tutto ben curato) ci viene squadernato l’alto artigianato fine ‘900 di un melologo (non opera) nel quale voci e orchestra si appoggiano le une sull’altra così come, fin da bimbetti (chi scrive ha 60 anni) alla Scala e altrove ascoltavamo. Il tutto applicato con alto mestiere allo (sconvolgente, quello sì, anche se, magari, gli anni si sentono) materiale letterario di Beckett. Tutto bello tutto giusto (un po’… noiosino, possiamo osare? E Beckett non sarebbe noioso), bravi gli interpreti, anche se il pur appropriato direttore Stenz, ascoltato due sere di fila, in Strauss e Kurtàg, indulge entrambe le volte a scarso controllo degli ottoni, talora laceranti, e a un suono che da bello diventa a tratti fibroso. Ma si esce con un senso di già ascoltato, mille volte nei decenni trascorsi, che contraddice le “epocali” dichiarazioni preventive di battage pubblicitario aziendale. Abbiamo già dato, diversi anni fa. La Scala, secondo noi, non è un luogo di nostalgie personali da ostendere al pubblico. Detto con tutta la simpatia e la tenerezza possibili.
marco vizzardelli
P.s. Buon successo (qualche fuga durante lo spettacolo), ma difficile da dimensionare: infatti, minor tenerezza e simpatia suscita, nelle gallerie, la ricorrente novità dell’attuale gestione. Qualche lingua cattivella ma forse sagàce li aveva già ribattezzati, su questo blog “Gabriella boys and girls”. Io non so quale sia la matrice reale. Si tratta comunque di una squadra di giovinetti/e che salutano con urletti da concerto rock il finale di ben mirati eventi. Ben mirati e solo quelli nei quali l’establishment ha di che giocarsi. La vecchia claque dei tempi andati aveva un che di più ruspante e innocente. Questi, no.
P.s. ulteriore: sui “claqueur” boys & girls, in attesa di prossimi urletti, un’idea possibile è che siano allievi dell’Accademia presenti in determinate occasioni. Domanda (come sul battage): è proprio necessario?
marco vizzardelli
Ci sono autori che non temono di sfidare a teatro il demone dell’Irrapresentabile in …musica. E di questo bisogna darne atto a Kurtag.
Sugli esiti i giudizi, anche antecenti alla prima di ieri sera, sono molti e questo è un aspetto positivo, si parla di una nuova opera!
Io sono interessato dalla teatralità di questo testo, che è stato invece giudicato da molti, più addentro alle cose teatrali del sottoscritto, antiteatrale.
Kurtag ha compiuto una trasposizione accurata ed ha voluto conservare interamente il dramma. È un testo frontale che parla direttamente agli spettatori: ad un primo ascolto, uscendo da teatro ieri sera, più di qualche dubbio sul fatto che anche la musica riesca a farlo mi è rimasto ed il tutto mi ha lasciato una impressione di …non compiuto. Da riascoltare.
Se non l’avessi avuto in Turno C probabilmente non sarei andato a sentirla quest’opera.
Uscito, mi sento di dire poche cose.
Fatto plauso al lavoro dell’orchestra – ma gli ottoni si stanno ormai chaillyzzando anche quando egli non dirige: sempre sparati e fracassoni – e dei cantanti, per il resto siamo nel buio creativo più pesto. Non so se prendermela con Kurtág o con Audi; certo, Beckett è proprio su un altro livello di impatto drammatico rispetto a questa riduzione a matematica sonora impassibile e noiosa. Ho poi moltissime ma moltissime perplessità sull’utilizzo che il compositore fa della voce umana, che anzi mi sembra sommamente anti-operistico.
Stenz fa il vigile dall’inizio alla fine e niente più.
Ora, al netto della propaganda del patetico establishment mediatico milanese, siamo di fronte a un’operazione francamente fallimentare, col retrogusto di una sensazione che ieri sera esplicitavano in molti uscendo dalla sala: non è che questa composizione in realtà Kurtág voleva abbandonarla e invece l’ha comunque terminata (in dieci anni!) perché Pereira ha talmente insistito che l’illustre novantaduenne ha fatto buon viso a cattivo gioco?
La reazione del pubblico – quello non precedentemente fuggito – ha sottolineato più la buona volontà degli interpreti che non il presupposto capolavoro.
Molto male.
P.s.: A casa avevo predisposto tutto per la registrazione audio da RadioTre. È stato francamente imbarazzante ascoltare commenti superficiali e inutili. Si segnalano però due vette dell’orrido prese a caldo al termine della rappresentazione nel retropalco. La prima è l’affermazione di Pereira che questa sia stata la migliore serata da lui prodotta in tutta la carriera. La seconda è la seguente frase folgorante di Chailly (a proposito: a che pro chiedergli un parer visto che in nulla era implicato?): “Una grande partitura, tutto inizia col rullo di cymbalon ungherese e tutto ritorna al rullo di cymbalon ungherese”. Sticazzi.
A proposito di sfondoni nel testo di presentazione di Fin de Partie, ce n’è uno grosso nel testo, oltre alla omissione notata da Attilia: Wozzeck non è affatto una libera rielaborazione del testo di Büchner.
Berg ha solo operato qualche taglio e spostato l’ordine di alcune scene del testo teatrale. Le parole sono quasi tutte di Büchner.
Sul merito di Fin de Partie mi riservo di parlarne dopo avere assistito allo spettacolo.
Prendo spunto dalle ultime righe di der rote Falk per segnalare un fatto che mi lascia molto perplesso che forse varrebbe la pena di una verifica giornalistica.
Tra gli onorari per consulenti e collaboratori consultabile sul sito teatroallascala.org risulta che tale Mazzoleni Giulio (capo-comunicazione di Mika) percepisca € 18.750 tra il 10/04/2018 e il 31/12/2018 per il seguente incarico: “Consulente comunicazione M° Chailly”.
Suggerisco alla solerte stampa italiana un paio di domande.
1. Perché mai il Teatro alla Scala deve pagare coi suoi soldi una persona che aiuta Chailly nella sua comunicazione (quando vi è già un ufficio stampa il cui responsabile percepisce € 80.000)? Perché non lo paga direttamente il maestro? Vi sono casi analoghi in Italia e/o all’estero?
2. Perché sul sito non si trova traccia di quanto percepisce Chailly in quanto direttore musicale? Non s’intende, evidentemente, l’emolumento artistico per la singola serata/produzione diretta (che è giustamente frutto di contrattazione privata), ma proprio per il ruolo. Oppure Chailly non percepisce alcun fisso? E se così è, perché un ruolo dirigenziale previsto dallo statuto viene svolto a titolo gratuito?
Ecco, magari tra una spatafiata su Kurtag, una marchettata per la Filarmonica, e una trombonata riguardante “Attila”, qualcuno potrebbe svolgere una breve inchiesta.
Io sono più vicina al parere dello zio Yakusidé, salvo per il fatto che ritenga che vada riascoltato (per la cronaca, domani, in cui è prevista la seconda rappresentazione, andrò a vedere Italia – Portogallo a San Siro, spero con soddisfazione!). Mi è sembrato un melologo più che un’opera, con tutte le riserve per la qualità della musica (tutto dejà entendu invece che dejà vu), ma l’esperimento in sé, se era quello di rivelare la teatralità del testo, penso sia riuscito. Piuttosto che una versione mal recitata del testo di Beckett, meglio questa versione senz’altro. Ma, appunto, semmai si fa apprezzare per un modo “diverso” di ascoltare la pièce del drammaturgo irlandese, e non tanto per la musica in sé. Attilia
Non condivido le valutazioni negative sul lavoro di Kurtag e Pierre Audi, né quelle sulla pretesa esagerazione pubblicitaria dell’ “evento” (termine che odio).
Foletto ne ha parlato in modo molto equilibrato su un altro blog, informando che Fin de Partie ha ricevuto più richieste di accredito dalla stampa internazionale dell’Attila di S.Ambrogio, come mi pare giusto trattandosi di una prima mondiale rispetto a un’opera rappresentata con una certa frequenza alla Scala magari anche meglio di come riuscirà quest’anno.
Non è neppure un melologo, ma il canto è declamato in modo che spesso si avvicina al parlato, ma non arrivando ad esserlo.
Ho trovato molto belle la regìa e le luci. La musica è quella di Kurtag, né si può pretendere che la cambi a 90 anni passati, però la sua “neue musik” mi è parsa appropriata al testo di Beckett. Mi domando quale altra musica avrebbe potuto rivestire in modo migliore questa “tragedia patafisica” (molto più tragica di quella di Jarry). Chi ha frequentato i concerti più importanti di Milano Musica dedicata quest’anno proprio a Kurtag ne ha potuto apprezzare la qualità, che ne fa uno dei protagonisti assoluti del secondo Novecento.
Pare che Kurtag stia lavorando ancora alla scena del cagnolino di pezza, che manca, salvo una breve apparizione del quadrupede sul proscenio forse solo per memoria.
Poi se qualcuno è allergico al tipo di musica, in questo caso benissimo concertata e diretta da Markus Stenz, allora mi pare che il problema sia suo.
Una porcata.
– MV
la meravigliosa sintesi di Vono mi pare aver ben colto il senso profondo della proposta.
Una porcata, per di più rifilata agli abbonati (e questo è grave).
marco vizzardelli
Il mio parere sull'”opera” di Kurtàg è fondamentalmente negativo e mi sono già espresso ma. esulando da una questione di merito, ho trovato del tutto inopportuna, anzi sciagurata (anche visto l’esito di pubblico alle repliche, che fanno segnare un considerevole fuggi-fuggi, ogni sera, a spettacolo in corso) l’inserzione di Finale di Partita nei turni di abbonamento. Mi sembra assolutamente fuori posto, e controproducente.
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E mi nasce spontanea una riflessione. Ho rinunciato da qualche stagione al mio abbonamento. Una scelta che, al momento, non rimpiango. Se fossi abbonato alla Stagione Lirica della Scala e, giunto al traguardo-Kurtag guardassi indietro a ciò che è stato dato in abbonamento dal 7 dicembre 2017 ad oggi, dovrei dire che si è trattato di una delle più avvilenti stagioni nella storia del Teatro alla Scala (un discreto-buon Chenier, una eccellente Francesca Da Rimini… ed è finita lì. Un po’ poco!), se si pensa che un paio di titoli notevoli (Orfeo ed Euridice con Mariotti e il felice spettacolo, la ripresa di Fidelio in mano a Chung) non sono stati dati in abbonamento.
Auguro agli abbonati-Scala miglior sorte, nelle prossime stagioni. Di Ali Baba e simili non si campa…né ci si abbona.
Per quanto mi riguarda, attendo tempi migliori.
marco vizzardelli
Effettivamente, al di là dei meriti di cantanti e direttore d’orchestra, si tratta di un’opera per pochi eletti, in grado cioè di sopportare per due ore filate una dose da cavallo di teatro dell’assurdo in chiave tragi(comica) con pedissequo accompagnamento musicale.
Del resto si conosceva già il lavoro di Beckett così come la musica di Kurtág, potevamo forse aspettarci qualcosa di diverso? Quanto poi al fatto, come giustamente osservato da Vizzardelli, di darla in pasto agli abbonati ( così come per altre “memorabili rappresentazioni”), beh, mi sembra chiaro…….quanti euro avrebbe raccattato la Scala con un fuori abbonamento?
il mio giudizio è condizionato dal fatto che, pur riconoscendone il valore, sono sempre stato assai poco suggestionato dal teatro di Samuel Beckett che trovo (ripeto, è un’opinione personale) un autore un po’ datato. Il novantaduenne Kurtag, con la sua straordinaria capacità compositiva, distilla con la perizia di un entomologo la sua musica fatta di frammenti e aforismi adattandola pedissequamente al testo di Beckett con un’attenzione strenua al rapporto tra parole e musica. E’ un’operazione di grandissima e ammirevole artigianalità, ma che, trascinata per oltre due ore filate di spettacolo, chiede allo spettatore uno sforzo notevole. Ma al di là di ciò, quest’opera composta oggi si esprime con un linguaggio vecchio di cinquant’anni abbondanti. Ciò non è necessariamente un male, ma se i media l’annunciano e la promuovono come avanguardia, lo spettatore, oltre alla stanchezza dell’ascolto, si sente anche un po’ deluso o, peggio, vittima di una mistificazione a mezzo stampa. Ciò detto lo spettacolo è di alto livello, sia musicalmente (orchestra cantanti e direttore in gran forma), sia visivamente con il regista Pierre Audi che mette in scena Beckett in modo paradigmatico. In due parole: spettacolo interessante, ma l’entusiasmo è un’altra cosa.
MACBETH A LA FENICE
Fino al banchetto, il piano assassino dei Macbeth regge. Il banchetto li smaschera e da lì in poi per loro tutto è incubo, ingoiati dal soprannaturale. E’ ciò che Myung-Whun-Chung e Damiano Michieletto ci raccontano nel fantastico allestimento in scena alla Fenice.
Chung alza la mano, disegna il primo tema… e all’istante capisci che sarà un Macbeth, inaudito, come a sentirlo per la prima volta. La frase si inerpica e discende, nervosa nel tempo mobilissimo. La mobilità pazzesca, in tempi e dinamiche di una ricchezza inusiatata, di una orchestra, che è sinfonia e teatro, (grandiosa duttilità dei complessi de La Fenice) che letteralmente segue il tormento psicologico del protagonista. Di lui, Macbeth, prima ancora che di lei, la Lady (anche se Chung, nel libretto programma, ha posto accento sul ruolo importante di lei). Fino al banchetto, la messa in scena di Michieletto e il Verdi di Chung travolgono letteralmente mente e cuore lasciandoti senza fiato. Il tormento della paternità perduta di Macbeth, il pianificarte sinuoso della Lady, i morti viventi (più che streghe), soprannaturale consultato, il velo, che comincia con inghiottire Banco e poi tutto sopprimerà, il Duncano-nonno e i suoi “nipoti”, rampolli di un’alta società che è una identificazione dello spirito, “alta” ma inane, come poi si rioveleranno eessere i coniugi omicidi che ne fanno parte. La musica e la scena, la direzione e la regia, “entrano” nella psiche con una forza d’urto che lettralmente travolge. Lo schianto sp’aventoso (ma sentito il rullo di timpani, così!) che Chung estrae ad “è morto assassinato il re Duncano” è un inferno delle menti e dei cuori. Prima, i duetti e i quasi parlati di Macbeth e Banco, di Macbeth e Lady, avevano l la rapidità e la mobilità del pensiero e dei moti del cuore, in tempiojn e modi non appartenenti alla tradzizione interpretativa ma alla forza di “rivivere” Macbeth, moneto per momento, anima dopo anima, messa in campo congiuntamente da Chung e da Michieletto, E il brindisi – scoinvolgente! – non diviene, nella bocca della Lady poi nel concertato che conclude l’atto. La ripetizione da parte di lei non è nervosa o impaurita, quanto stralunata, rarefatta stanno tutti finendo inghiottiti in qualcoisa che li sovrasta e che non possono più controllare. Il secondo “biechi arcani” del coro è leggerissimo, impalpabile, non tanto e nemmeno la scoperta di un delitto quanto l’inizio di un annientamento in un sovrannaturale che ci sovrasta.
L’intervallo unico dello spettaco è qui, e da qui ne inizia un altro: quello dell’annientamento dell’umano – potere, regno, rimpianto di paternità o maternità, vita, respiro, nel sovrannaturale. La scena e la stessa ma cambia il tempo di tutto, si strania, si dilata, si sospende, (e qui il Verdi del Chung nervoso ed insinuante e mobilissimo della prima parte, torna ad essere il tragico, sacrale Verdi di questi grandi anni in musica del direttore coreano) dalla processione dei re-bambini in poi sull’abisso di un ignoto superiore che tutto sovrasta e poi inghiotte. Michieletto in intervista ha citato il film Festen. C’è anche altro, a nostro avviso: pensate, se volete, al “mondo” – i bambini, il sovrannaturale, il terrore del conscio e dell’nconscio – dei migliori romanzi di Stephen King. L’annientamento dell’umano cambia anche il tempo della musica, dell’azione. E allora, mentre di ammira ancor più la duttilità di Salsi-Macbeth e Yeo-Lady, mentre si comprende qualche istante di difficoltà ritmica di Stefano Secco-Macduff e del pur ottimo coro, nel tenere il giusto mutar dei tempi impresso da Chung (e dallo spettacolo), allora, ecco, ci sarà quel Patria Oppressa tragico e straniato, ci saranno quel Macduff e quel Malcolm per niente vincitori. Ci sarà quel sonnambulismo-annientamento. C’è un’immagine agghiacciante, forse il culmine emotivo di tutta la messa inscena: il triciclo dell’ultimo re bambino, quello che è passato incoronato e citato dal testo, che torna in scena e vi gira vuoto, da solo, attorno a Macbeth. Un giocattolo simbolo di delirio, come alla fine è la corona stessa deposta da Macbeth. Il delirio di un povero idiota. Tutto s’imbratta di sangue bianco, tutti i morti sono inghiottiti dal velo-sacco bianco. “il velame squarcerò” aveva detto Macbeth. No. è il velame che inghiotte lui, e tutti. ha dichiarato Michieletto. Si esce sconvolti, con mente e cuore traboccanti, ed è uno spettacolo che non ti lascia, per giorni e giorni, o forse mai. Memorabile, nella mente e nel cuore.
marco vizzardelli
MACBETH LA FENICE (corretto)
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Fino al banchetto, il piano assassino dei Macbeth regge. Il banchetto li smaschera e da lì in poi per loro tutto è incubo, ingoiati dal soprannaturale. La follia come inghiottimento nel sovrannaturale. E’ ciò che Myung-Whun-Chung e Damiano Michieletto ci raccontano nel fantastico allestimento in scena alla Fenice.
Chung alza la mano, disegna il primo tema… e all’istante capisci che sarà un Macbeth, inaudito, come a sentirlo per la prima volta. La frase si inerpica e discende, nervosa nel tempo mobilissimo. La mobilità pazzesca, in tempi e dinamiche di una ricchezza inusiatata, di una orchestra, che è sinfonia e teatro, (grandiosa duttilità dei complessi de La Fenice) che letteralmente segue il tormento psicologico del protagonista. Di lui, Macbeth, prima ancora che di lei, la Lady (anche se Chung, nel libretto programma, ha posto accento sul ruolo importante di lei). Fino al banchetto, la messa in scena di Michieletto e il Verdi di Chung travolgono letteralmente mente e cuore lasciandoti senza fiato. Il tormento della paternità perduta di Macbeth, il pianificarte sinuoso della Lady, i morti viventi (più che streghe), soprannaturale consultato, il velo, che comincia con inghiottire Banco e poi tutto sopprimerà, il Duncano-nonno e i suoi “nipoti”, rampolli di un’alta società che è una identificazione dello spirito, “alta” ma inane, come poi si rioveleranno eessere i coniugi omicidi che ne fanno parte. La musica e la scena, la direzione e la regia, “entrano” nella psiche con una forza d’urto che letteralmente travolge. Lo schianto spaventoso (mai sentito il rullo di timpani, così!) che Chung estrae ad “è morto assassinato il re Duncano” è un inferno delle menti e dei cuori. Prima, i duetti e i quasi parlati di Macbeth e Banco, di Macbeth e Lady, avevano l la rapidità e la mobilità del pensiero e dei moti del cuore, in tempi e modi non appartenenti alla tradizione interpretativa ma alla forza di “rivivere” Macbeth, momento per momento, anima dopo anima, messa in campo congiuntamente da Chung e da Michieletto, E il brindisi – sconvolgente! – non diviene, nella bocca della Lady poi nel concertato che conclude l’atto,la ripetizione da parte di lei nervosa o impaurita: quanto stralunata, rarefatta stanno tutti finendo inghiottiti in qualcosa che li sovrasta e che non possono più controllare. Il secondo “biechi arcani” del coro è leggerissimo, impalpabile, non tanto e nemmeno la scoperta di un delitto quanto l’inizio di un annientamento in un sovrannaturale che ci sovrasta.
L’intervallo unico dello spettacolo è qui, e da qui ne inizia un altro: quello dell’annientamento dell’umano – potere, regno, rimpianto di paternità o maternità, vita, respiro, nel sovrannaturale. La scena è la stessa ma cambia il tempo di tutto, si strania, si dilata, si sospende, “l’eternità t’apre il tuo regno” aveva cantato Macbeth (e qui il Verdi del Chung nervoso ed insinuante e mobilissimo della prima parte, torna ad essere il tragico, sacrale Verdi di questi grandi anni in musica del direttore coreano) dalla processione dei re-bambini in poi sull’abisso di un ignoto superiore che tutto sovrasta e poi inghiotte. Michieletto in intervista ha citato il film Festen. C’è anche altro, a nostro avviso: pensate, se volete, al “mondo” – i bambini, il sovrannaturale, il terrore del conscio e dell’nconscio – dei migliori romanzi di Stephen King. L’annientamento dell’umano cambia anche il tempo della musica, dell’azione. E allora, mentre di ammira ancor più la duttilità di Salsi-Macbeth e Yeo-Lady, mentre si comprende qualche istante di difficoltà ritmica di Stefano Secco-Macduff e del pur ottimo coro, nel tenere il giusto mutar dei tempi impresso da Chung (e dallo spettacolo), allora, ecco, ci sarà quel Patria Oppressa tragico e straniato, ci saranno quel Macduff e quel Malcolm per niente vincitori. Ci sarà quel sonnambulismo-annientamento. C’è un’immagine agghiacciante, forse il culmine emotivo di tutta la messa inscena: il triciclo dell’ultimo re bambino, quello che è passato incoronato e citato dal testo, che torna in scena e vi gira vuoto, da solo senza bambino, attorno a Macbeth. Un giocattolo simbolo di delirio, come alla fine è la corona stessa deposta da Macbeth. Il delirio di un povero idiota. Tutto s’imbratta di sangue bianco, tutti i morti sono inghiottiti dal velo-sacco bianco. “il velame squarcerò” aveva detto Macbeth. No. è il velame che inghiotte lui, e tutti. ha dichiarato Michieletto. Si esce sconvolti, con mente e cuore traboccanti, ed è uno spettacolo che non ti lascia, per giorni e giorni, o forse mai. Memorabile, nella mente e nel cuore.
marco vizzardelli
Dieci minuti fa Daniele Gatti ha firmato il contratto triennale come Direttore Musicale del Teatro dell’Opera di Roma. Tra pochi minuti il Sovrintendente Carlo Fuortes interromperà la prova di «Rigoletto» per comunicare alle masse artistiche e tecniche la notizia.
Prima annotazione: complimenti a Roma. Il miglior teatro d’opera italiano attuale ingaggia il miglior direttore d’orchestra italiano attuale. La cosa ha una sua comprensibilissima logica, anche politica.
Seconda annotazione: la miopa di Milano. Sempre convinti, in via Filodrammatici, che tanto la gente non prende impegni perché quando la Scala chiama tutti accorrono. Invece l’attuale Scala è un teatro declinante e insignificante, che si regge su un patto scellerato tra sovrintendente e direttore musicale, svenditori di qualità e autorevolezza. Non so quanto durerà questa situazione, e soprattutto fino a quando la corte plaudente continuerà a reggere il gioco (esempio: «Attila» è un’opera decisiva è bellissima; oppure: solo il miglior teatro al mondo può mettere in scena Kurtág).
Terza annotazione: voglia il Sindaco di Milano opzionare sin d’ora Daniele Gatti per la Scala al termine del suo mandato romano. È l’ultima, anzi, l’ultimissima possibilità perché questi tristi anni siano archiviati, senza che anche Beppe Sala passi alla storia come colpevole di questo strazio miserabile.
chiediamo al sindaco di fare il sindaco e per questo ruolo non necessita né conoscenza né competenza in campo musicale. Il sindaco deve solo coordinare le richieste che arrivano da quelli che dovrebbero essere competenti in materia: sovrintendente, critica musicale, orchestra; i colpevoli della situazione attuale sono le realtà summenzionate e solamente a loro dovrebbero essere rivolte critiche e appelli al cambiamento. Sala ha, purtroppo, fatto bene il suo lavoro e sarebbe stato, paradossalmente, sbagliato se avesse fatto scelte in opposizione a quanto suggerito dalle realtà competenti (anche se di fatto poco competenti si stanno dimostrando ma non sta a Sala mettere in evidenza ciò)
Caro Pamo, capisco la tua posizione ma non credo che ViolaMargherita intendesse dire altro che questo: poiché il sindaco è il presidente del Teatro alla Scala – e si sta dimostrando un sindaco competente in molti ambiti – ha tutta l’autorevolezza politica e giuridica per incanalare l’attuale grave situazione verso una soluzione. Non si tratta di dare a Sala colpe che non ha, gli si chiede di intervenire per correggere erroracci di persone che, anche da statuto, sono comunque sue sottoposte.
un qualunque presidente (o amministratore delegato) di una generica società sovrintende tantissimi aspetti: produzione, commercializzazione, finanza etc.. Non può essere esperto di tutto. Per ciascun aspetto ha dei collaboratori suoi sottoposti. Se qualcuno di questi collaboratori fa “erroracci” dovrebbero farglielo notare chi lavora con questi collaboratori incapaci. Passando al caso specifico, come fa Sala a rendersi conto che Pereira si sta dimostrando musicalmente incapace? In fondo i conti del teatro sono più o meno a posto e, come avevo già scritto, Sala non ha le competenze per dire che Pereira sta facendo “erroracci” distruggendo il valore musicale del teatro. Per me chi dovrebbe farsi sentire è innanzitutto l’orchestra che, quando ha voluto, si è fatta sentire facendo cacciare sovrintendenti e direttori. E’ innanzitutto interesse dell’orchestra mantenere il valore musicale del teatro. In secondo luogo esiste una fortissima presenza di critica musicale in città e, purtroppo, è schierata in supporto di Pereira. Come potrebbe Sala affermare che la critica musicale del principale giornale di Milano sta sbagliando ad esaltare Pereira? Fin quando orchestra e critica musicale cittadina non si saranno mossi a denunciare una situazione musicalmente deprimente, Sala non potrà fare nulla
d’accordissimo as usual con violamargherita.
propongo però una mia interpretazione.
Carlo Fuortes con questa mossa lancia la sua opa per divenire prossimo sovrintendente scaligero, e si presenta con in pectore il nome che molti – io tra questi – desiderano da anni come direttore musicale.
anche la tempistica me lo suggerisce. se il contratto di Gatti è triennale copre tre stagioni (18/19 + 19/20 + 20/21) che guarda un po’ sono le ultime tre in cui Fuortes è in carica a Roma.
se ci metti che Pereira scade il 28 febbraio 2020 e che Chailly scade il 31 dicembre 2021, mi sembra che i conti possano tornare.
possiamo sperarlo?
Grande invidia per Roma…Si vocifera di una grandissima inaugurazione verdiana con Gatti anche per la 2019-2020…Un titolo che proprio la Scala ha rinunciato ad affrontare per pavidità sostituendolo con il modestissimo Attila…
TEODOR CURRENTZIS ALLA SCALA
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Memorabile.
Parla – e chiaro – la reazione del pubblico, completamente soggiogato e trasfigurato: non sembrava di essere alla Scala. Il meraviglioso silenzio alla fine della Quarta (finalmente!), i telefoninini spenti (finalmente!), l’attenzione (finalmente!), gli applausi ritmati dopo il fantastico bis (Marko Nikodievic, compositore croato), genialmente scelto per riportarci dal silenzio della Quarta al rumore puro.
Gli ultimi sei impressionanti lieder (ma tutti!) del corno magico, con quell’incredibile rullo in pianissimo del”tamburino”, l’adagio astrale della Quarta, vissuta come un interminabile lied… concerto stratosferico. Il rapporto orchestra-direttore (quel primo violino che pare il prolungamento della mano e della mente di Currentzis) si spiegano solo con il mostruoso carisma della guida e con il tipo di vita prescelto. Da Perm è arrivato alla musica qualcosa di unico ed inaudito. Per di più continuo a ricordare il mio primo incontro con Currentzis anni fa a Parigi (epoca Mortier) in un memorabile Don Carlo verdiano nel quale la (di suo) non eccezionale orchestra de la Bastille diventava indimenticable manifestazione sonora-interprtetativa dell’Inquisizione. Ne uscii sconvolto. Esattamente come dopo il concerto di stasera. Siamo, a mio avviso, in un mondo musicale “oltre”.
marco vizzardelli
Forse questo sorprenderà qualcuno, ma… non avrete mie cattiverie sull’Attila scaligero, quale mi è parso all’uscita dalla prova generale, con una scaletta di impressioni soddisfacenti. Non rompo il mio “credo” di non parlare degli spettacoli prima della prima, e non aggiungo nulla, se non che si tratta di produzione seria e curata, dirò poi quanto e cosa mi è piaciuto o meno. Ma, ferma restando la mia contrarietà sulla scelta del titolo a mio avviso non adeguato ad una inaugurazione, la realizzazione è di livello.
Altro non aggiungo.
marco vizzardelli
La trionfale ovazione che accoglie Daniele Gatti al termine del “Rigoletto” romano segna al contempo la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.
È la fine della caccia alle streghe con cui una parte dell’establishment musicale mondiale (di cui fanno parte certi declinanti potentati milanesi) ha cercato, con una spregiudicata operazione medianica mai osata prima, di fare fuori il più grande direttore d’orchestra italiano vivente nonché uno dei migliori del mondo.
È l’inizio del suo nuovo mandato triennale a Roma, preludio del suo arrivo – e siamo comunque troppo troppo in ritardo rispetto a quando sarebbe dovuto avvenire – al timone della Scala.
Venendo allo spettacolo. Una direzione gigantesca, sconvolgente; con una orchestra galvanizzata pronta a dare tutto al maestro; con un cast che vede nella sola Gilda una vera star del canto, ma la cui forza è nella dedizione totale alla causa; con una regia intelligente, shakespeariana, dove le luci giocano un ruolo decisivo (cosa non sono quegli effetti di lampioni di stradine che fendono la spessa nebbia!), dove il rapporto tra i personaggi è scavato, dove perfino il coro romano si mette a disposizione in maniera convinta.
Certamente è la realizzazione verdiana migliore cui abbia assistito in questo 2018 insieme al “Don Carlo” bolognese di Mariotti.
Pubblico molto attento. Molti bravo al rientro di Gatti in buca. Agli applausi finali oltre alla standing ovation per il direttore si sono segnalate vere punte di entusiasmo per la Oropesa e per Frontali. Molto applauditi tutti gli altri, a parte qualche isolato buh riservato al tenore Jordi. Pubblico diviso a metà, invece, all’uscita del tema registro.
Saluti a tutti da una Roma fortunata e come sempre bellissima (e con una menzione particolare per l’incredibile vestito sfoggiato dalla sindaca).
RIGOLETTO a Roma
Serata assolutamente storica, per molti motivi già ben delineati da chi mi ha preceduto.
La serata non solo è piena di momenti pazzeschi (preludio, duetto Rigoletto/Sparafucile, finale primo, “Cortigiani”, tempesta, finale ultimo); è proprio tutto l’arco dell’opera a essere di una tensione quasi irresistibile.
Su Gatti non mi soffermerò più di tanto: si conferma il numero uno assoluto, nessuno oggi è in grado di cose simili.
Grandissimo merito all’orchestra, davvero in grandissimo spolvero.
La Oropesa mi ha stregato completamente. Frontali è Rigoletto prima ancora che cantarlo. Jordi interpreta il Duca come oggi va di moda, con voce dalle risonanze belliniane; a me garba molto. Benissimo Zanellato. Incantevole la Kolosova. Maiuscolo Cigni.
Ho trovato l’ambientazione scelta da Daniele Abbado molto in linea con l’atmosfera tesissima voluta da Gatti. Anche io segnalo uno studio delle luci geniale. Ma ho apprezzato anche l’atmosfera favorita da un impianto scenico che non teme l’horror vacui proprio perché il lavoro di recitazione è straordinario. Menzione particolare alla messa in scena del preludio, dove si capisce che Salò è prestanome per Gotham City: indimenticabile.
Detto dell’eclatante trionfo personale di Gatti, mi dichiaro invece in disaccordo con le contestazioni al tenore e alla regia.
Mamma mia, che «Rigoletto» emozionante!
P.s.: Comfermo anche io che durante l’imtervallo si parlava insistentemente di «Les vêpres siciliennes» (in francese e assolutamente integrale, balletto compreso) come prossima inaugurazione.
Lo straordinario “basso” del tema dell’entrata di Sparafucile non è una ballatella melodica italiana ma espressione di mistero e congiura che “entrano” nella vita di Rigoletto.”Veglia o Donna” non è una ninna nanna (come una certa tradizione esecutiva tramanda) ma l’affidamento, con apprensione, della figlia da parte del padre e il tentativo apprensivo delle figlia di rassicurarlo: come tale va eseguito ed accentato. “Ah no è follia” non è l’urlo del matador o l’esibizione vocalmuscolare del baritono, ma esprime lo stupore incredulo di Rigoletto. Il coretto dei congiurati non è un generico estroso saltellìo vocale, ma, per l’appunto, un notturno sussurro di congiura. La Donna è Mobile è connessa a quanto avviene prima o dopo. Fra la Gilda dell’inizio e quella che esce dal “rapimento” c’à uno scarto di amara consapevolezza, da adolescente a donna. E via discorrendo…
dice Daniele Gatti. Ed è quel che il grandissimo direttore milanese fa in questo Rigoletto romano che è, dal podio e con splendida risposta di orchestra e coro e duttile adesione del cast, un magnifico, capillare lavoro di drammaturgia in musica. Rigoletto “alternativo”? Ma no è l’affermazione e l’atto d’amore per uno dei due (con Mozart) massimi autori di teatro in musica. Daniele Gatti dirige, semplicemente, da devoto al genio teatral musicale di Verdi, spogliandolo –questo sì – da tante convenzioni accumulatesi nel tempo. E’, come sempre accade con Gatti, un devoto che tuttavia fonde tutta la sua natura e cultura e personalità artistica ed umana in quella dell’autore: ogni direzione di daniele Gatti è un’avventura dell’intelletto, del cuore, dello spirito. E d’altra parte, non c’è una nota di Rigoletto che non abbia motivazione drammaturgia. Questo è Verdi.
Occorre un baritono che sia disposto a ripensarsi, nel ruolo. E Roberto Frontali, dopo una vita in musica, ha la freschezza di spirito e l’intelligenza di farlo, assieme al direttore, disegnando un uomo e un padre (scevro dalla muscolarità vocale e da una certa gestualità scimmiesca di tradizione, solo nella festa iniziale ha una nota grottesca) . Un Rigoletto ripulito dai mille cachinni di una inveterata convenzione, e proprio per questo infinitamente più umano e vero. Così come la bravissima Lisette Oropesa disegna con Gatti un tragico, lunare, viaggio di formazione da fanciulla a donna. Idem (con voce un po’ esile ma con bravura) il Duca di Ismael Jordi, fin dall’elegante (non sguaiataggine da bullo) “Questa o quella” .
Manca a questo Rigoletto una efficacia scenica che pareggi la regia musicale di Verdi, di Gatti , attuata vocalmente dal cast. Non perché il colto e (fin troppo) serio Daniele Abbado sia estraneo alla musica , e al tipo di lettura musicale proposto. E in certi rapporti fra i singoli o di recitazione la mano registica sarebbe buona e consapevole. Ma, a parte l’ennesima scelta di fascismo e cappotti ( si è un po’ sazi di nazismo e fascismo, ormai quasi un incubo ricorrente dei registi d’opera: quante volte li abbiam visti in scena?) il “contenitore” scenico (anche un po’ vecchiotto, nello stile) di questo Rigoletto è mesto (privo dell’ironia elegante, che invece Gatti coglie ed esprime, con la eccellente paletta di colori e la flessibilità dell’orchestra dell’Opera, qui al suo meglio assoluto) e non “passa” al pubblico, anzi infastidendo l’occhio che vorrebbe tener dietro a ciò che l’orecchio apprezza. La gabbia stessa, che prepondera in scena, complica anziché facilitare la fruizione. Più volte si vorrebbe, in corso d’opera, chiudere gli occhi e abbandonarsi alla regia musicale di Verdi e di Gatti, che è già tutta, e con magnifica efficacia, teatro in musica. Esempio preclaro, il meraviglioso temporale musical drammaturgico, temporale della natura ma dell’anima, evocato da Gatti con ocrchestra e coro, ha quasi zero riscontro in scena e lì davvero gli occhi vorrebbero chiudersi.
Sì che la trasferta a Roma è consigliata, caldamente, per ciò che si ascolta: che è già regia , ma che non ha rispondenza adeguata nella messa in scena (contrariamente al folgorante Macbeth di Venezia, nel quale, fra Chung e Michieletto, c’era tutto!). Ciò che il pubblico della prima ha ben distinto, tributando al rientro dopo l’intervallo e poi alla fine, una affettuosa, esultante ovazione a Daniele Gatti e a orchestra e coro magnifici, e un’altra altrettanto calda a Frontali e anche ad Oropesa (più tiepida al tenore), ma contestando al termine, a chiara voce e con motivazione, il regista.
marco vizzardelli
RISCRIVO (C’é STATO UN TAGLIO CAUSA NON PRESA DI VIRGOLETTE E MANCANZA DI CORRETTORE)
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Lo straordinario “basso” del tema dell’entrata di Sparafucile non è una ballatella melodica italiana ma espressione di mistero e congiura che “entrano” nella vita di Rigoletto.”Veglia o Donna” non è una ninna nanna (come una certa tradizione esecutiva tramanda) ma l’affidamento, con apprensione, della figlia da parte del padre e il tentativo apprensivo delle figlia di rassicurarlo: come tale va eseguito ed accentato. “Ah no è follia” non è l’urlo del matador o l’esibizione vocalmuscolare del baritono, ma esprime lo stupore incredulo di Rigoletto. Il coretto dei congiurati non è un generico estroso saltellìo vocale, ma, per l’appunto, un notturno sussurro di congiura. La Donna è Mobile è connessa a quanto avviene prima o dopo. Fra la Gilda dell’inizio e quella che esce dal “rapimento” c’à uno scarto di amara consapevolezza, da adolescente a donna. E via discorrendo…
“Verdi è il primo ed unico regista musicale. Noi dobbiamo solo sforzarci di comprendere dove lui vuole portarci” dice Daniele Gatti. Ed è quel che il grandissimo direttore milanese fa in questo Rigoletto romano che è, dal podio e con splendida risposta di orchestra e coro e duttile adesione del cast, un magnifico, capillare lavoro di drammaturgia in musica. Rigoletto “alternativo”? Ma no è l’affermazione e l’atto d’amore per uno dei due (con Mozart) massimi autori di teatro in musica. Daniele Gatti dirige, semplicemente, da devoto al genio teatral musicale di Verdi, spogliandolo –questo sì – da tante convenzioni accumulatesi nel tempo. E’, come sempre accade con Gatti, un devoto che tuttavia fonde tutta la sua natura e cultura e personalità artistica ed umana in quella dell’autore: ogni direzione di daniele Gatti è un’avventura dell’intelletto, del cuore, dello spirito. E d’altra parte, non c’è una nota di Rigoletto che non abbia motivazione drammaturgia. Questo è Verdi.
Occorre un baritono che sia disposto a ripensarsi, nel ruolo. E Roberto Frontali, dopo una vita in musica, ha la freschezza di spirito e l’intelligenza di farlo, assieme al direttore, disegnando un uomo e un padre (scevro dalla muscolarità vocale e da una certa gestualità scimmiesca di tradizione, solo nella festa iniziale ha una nota grottesca) . Un Rigoletto ripulito dai mille cachinni di una inveterata convenzione, e proprio per questo infinitamente più umano e vero. Così come la bravissima Lisette Oropesa disegna con Gatti un tragico, lunare, viaggio di formazione da fanciulla a donna. Idem (con voce un po’ esile ma con bravura) il Duca di Ismael Jordi, fin dall’elegante (non sguaiataggine da bullo) “Questa o quella” .
Manca a questo Rigoletto una efficacia scenica che pareggi la regia musicale di Verdi, di Gatti , attuata vocalmente dal cast. Non perché il colto e (fin troppo) serio Daniele Abbado sia estraneo alla musica , e al tipo di lettura musicale proposto. E in certi rapporti fra i singoli o di recitazione la mano registica sarebbe buona e consapevole. Ma, a parte l’ennesima scelta di fascismo e cappotti ( si è un po’ sazi di nazismo e fascismo, ormai quasi un incubo ricorrente dei registi d’opera: quante volte li abbiam visti in scena?) il “contenitore” scenico (anche un po’ vecchiotto, nello stile) di questo Rigoletto è mesto (privo dell’ironia elegante, che invece Gatti coglie ed esprime, con la eccellente paletta di colori e la flessibilità dell’orchestra dell’Opera, qui al suo meglio assoluto) e non “passa” al pubblico, anzi infastidendo l’occhio che vorrebbe tener dietro a ciò che l’orecchio apprezza. La gabbia stessa, che prepondera in scena, complica anziché facilitare la fruizione. Più volte si vorrebbe, in corso d’opera, chiudere gli occhi e abbandonarsi alla regia musicale di Verdi e di Gatti, che è già tutta, e con magnifica efficacia, teatro in musica. Esempio preclaro, il meraviglioso temporale musical drammaturgico, temporale della natura ma dell’anima, evocato da Gatti con ocrchestra e coro, ha quasi zero riscontro in scena e lì davvero gli occhi vorrebbero chiudersi.
Sì che la trasferta a Roma è consigliata, caldamente, per ciò che si ascolta: che è già regia , ma che non ha rispondenza adeguata nella messa in scena (contrariamente al folgorante Macbeth di Venezia, nel quale, fra Chung e Michieletto, c’era tutto!). Ciò che il pubblico della prima ha ben distinto, tributando al rientro dopo l’intervallo e poi alla fine, una affettuosa, esultante ovazione a Daniele Gatti e a orchestra e coro magnifici, e un’altra altrettanto calda a Frontali e anche ad Oropesa (più tiepida al tenore), ma contestando al termine, a chiara voce e con motivazione, il regista.
marco vizzardelli
Ecco l’illuminante intervista completa a Daniele Gatti. Fantastico! MAestro, non si dimentichi di Milano, per cortesia!!!
Povera Scala. Povera Scala. Povera Scala.
Perché Roma sì e noi no???
Maledetti coloro che hanno consentito che oggi siano al potere Pereira e Chailly.
Torno a ripetere: Beppe Sala, batti un colpo prima che il vascello scaligero affondi!
ieri sera in teatro per la seconda recita di “Rigoletto”, confermo l’eccezionalità storica della direzione di Gatti – pur straniante in alcuni momenti – e il suo assoluto dominio del meccanismo drammaturgico verdiano. sembra di essere dentro a un thriller da incubo: concertazione superlativa. lo assecondano una orchestra in formissima è un cast che crede nell’impostazione del direttore. a me la regia è piaciuta, è piaciuta molto, anzi, in questo usato meccanismo di luci paurose e livide e di sottrazione, con questo senso di abbandono e isolamento dei personaggi dovuto al progressivo scomparire della scenografia. il preludio è realizzato benissimo e la morte di Gilda inghiottita da un cono d’ombra in proscenio là si ricorderà a lungo.
al termine ovazioni interminabili. al comparire di Gatti sono partite caterve di coriandoli dall’alto a coprirlo per festeggiare la nomina a direttore musicale. urla da stadio e il maestro che prende il microfono e dice poche commosse parole ma profondissime.
posso dirlo? da milanese ho provato invidia per un teatro che evidentemente crede in quello che fa, dove l’atmosfera non è nevrastenica, dove non ci si riempie la bocca di aggettivazioni superlative presunte. un’anima, ecco, una mission artistica. tutto quello che alla Scala manca, per via di un sovrintendente totalmente fuori luogo, di un direttore musicale che nessuno ha voluto o stima (né masse artistiche né pubblico) ma che è stato imposto per puri motivi di potere. uno schifo, insomma, una vergogna che deve finire al più presto. buon “Attila” a tutti…
brutte notizia su internet: pare che il malore cardiaco che ha costretto Gatti a saltare la replica romana di “Rigoletto” ieri sia più serio di quanto sia trapelato sinora.
il grandissimo maestro milanese cancella tutti i suoi impegni di febbraio marzo aprile.
in bocca al lupo!