Dal 19 Gennaio all’11 Febbraio 2018
Johann Strauss
Prima rappresentazione al Teatro alla Scala
Coro, Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala
PRIMO ATTO: 52 minuti / Intervallo: 30 minuti / SECONDO ATTO: 50 minuti / Intervallo: 25 minuti / TERZO ATTO: 41 minuti
Durata spettacolo: 3 ore e 18 minuti inclusi intervalli
Direttore
Cornelius Meister
Regia
Cornelius Obonya
Co-regista
Carolin Pienkos
Scene e costumi
Heike Scheele
Luci
Friedrich Rom
Coreografia
Heinz Spoerli
Video
Alexander Scherpink
CAST
Eisenstein
Peter Sonn
Rosalinde
Eva Mei
Dr. Falke
Markus Werba
Frank
Michael Kraus
Adele
Daniela Fally
Princesse Orlofskaya
Elena Maximova
Alfred
Giorgio Berrugi
Dr. Blind
Kresimir Spicer
Frosch
Paolo Rossi
CAST CORPO DI BALLO per data
19, 21, 23 gennaio e 2, 4, 11 febbraio 2018
Una donna
Marta Romagna
Un uomo
Massimo Garon
Tre uomini czarda
Federico Fresi, Maurizio Licitra, Salvatore Perdichizzi
Coppia Solista
Beatrice Carbone, Massimo Garon
E il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
28 e 31 gennaio 2018
Una donna
Deborah Gismondi
Un uomo
Federico Fresi
Tre uomini czarda
Federico Fresi, Maurizio Licitra, Salvatore Perdichizzi
Coppia Solista
Beatrice Carbone, Massimo Garon
E il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
L’OPERA IN POCHE RIGHE
Die Fledermaus di Johann Strauss è un capitolo importante nella storia del teatro musicale. Non un’operetta ma una vera e propria opera buffa viennese, unica per complessità musicale e teatrale. La prima volta alla Scala di questo capolavoro assoluto è diretta da Cornelius Meister. La regia è affidata a Cornelius Obonya, un uomo di teatro completo che proviene dalla più illustre dinastia teatrale austriaca e che in veste di attore ha interpretato per anni Jedermann a Salisburgo raccogliendo il testimone del nonno materno, il leggendario Attila Hörbiger. Cantano Eva Mei, Peter Sonn e Markus Werba, mentre la parte comica (parlata) del carceriere Frosch è affidata all’estro di Paolo Rossi e la coreografia è di Heinz Spoerli
La Bohème
Teatro Comunale di Bologna Opera
19 gen. 2018
Mentre la stagione scaligera prosegue senza niente di attrattivo, a Bologna è appena finita una grandissima Bohème. Uno spettacolo moderno ma immediato e tutto sommato commovente. Solisti di qualità buona e soprattutto molto bravi come insieme. È un direttore d’orchestra – Michi Mariotti – sempre più maiuscolo, ormai meritevole di ben altre orchestre e di ben altri luoghi. Bravissimo!
Un filo off topic
mi sembra che sia la Scala a essere off topic rispetto alla qualità che dovrebbe esprimere.
Commento inutile ed altrettanto stupido. Il topic e’per commentare l’opera in oggetto, non le vs.frustrazioni
allora perché tutti i critici musicali (“Corriere della Sera” a parte, inutile dirlo) erano a in sala a Bologna e non a Milano? tutti frustrati?
Trascinatavi da insistenti amiche, ho infine assistito a questa “Die Fledermaus (Il pipistrello)”.
Mai rappresentata alla Scala, vero. Ma forse iersera s’è capito anche perché.
Un coro di sovrumana bravura e un’orchestra piuttosto in forma – strepitose le percussioni nella polka coreografata – non bastano a dare un senso a questa operazione.
Il primo errore è certamente diluire un’ora e quaranta minuti di musica in tre ore e venti di spettacolo: troppo spazio ai dialoghi, troppe due pause. Un direttore d’orchestra autorevole avrebbe capito la cosa e avrebbe imposto maggior speditezza. Cornelius Meister, di fatto, si limita a offrire una colonna sonora (non brutta, anche se gli sbandamenti ritmici col palcoscenico non sono stati pochi) a uno spettacolo che vive di vita propria rispetto alla partitura di Strauss.
La regia ci introduce in una moderna e lussuosa località sciistica austriaca. Negli appartamenti le domestiche lavorano poco perché ci pensa l’aspirapolvere rotondo automatico roomba a pulire (facendo un rumore che copre i primi cinque minuti dell’opera), fuori si fa lo struscio andando in boutique a comprare vestiti sgargianti per feste e corteggiamenti. Orlofsky non è un maschio bensì una femmina sebbene rude, entra col mitra, possiede reperti archeologici rubati dalla Siria (“Non chiedetemi come li abbia avuti”, dice, credendo di far ridere qualcuno) che possiede o ha affittato un grande palazzo per una festa che serve a corrompere i burocrati austriaci del luogo. La scena della prigione è l’unica che abbia una qualche ispirazione nel suo essere caricatura di un bel hotel.
Allestimento anche simpatico, non dico di no. Rimane il fatto che il regista, che ha ingaggiato la propria moglie come co-regista, sta in superficie e cerca la gag. E quanto fa male vedere i balletti e gli acrobatismi concepiti da quella frana totale di Heinz Spoerli: disastro completo.
Peter Sonn canta e recita bene, ma non riesce a convincere che per Eisenstein occorra un tenore al posto di un baritono acuto.
Werba e Kraus sono quelli che cantano e recitano meglio (anche nei dialoghi italiani).
La Daniela Fally è stata la più applaudita, ma non ho rinvenuto caratteri di eccezionalità nella di lei prestazione.
A Giorgio Berrugi è stato chiesto di interpretare lo stupido e sfacciato tenore italiano. Lo fa interpolando citazioni da opere italiane, ma canta malissimo l’iniziale Täubchen, das entflattert ist.
Il buco nero della produzione, purtroppo, è Eva Mei, la quale nulla possiede della raffinatezza di Rosalinde, assomigliando piuttosto a una desperate housewife. Voce poca e spiacevole.
Rimane Paolo Rossi, che esordisce, per fortuna muto, nel primo atto mangiando panini, girando quadri e sfasciando statue. Arrivati al terzo atto ammicca al pubblico, di fatto interpretando il sottoposto italiano di un ottuso superiore austriaco, con tutti i luoghi comuni del caso. Mi aspettavo anche peggio, ma di fatto mette in scena solo e unicamente se stesso senza alcun legame con l’opera.
Perché è questo il problema che acutamente emerge, ancora una volta, stasera. Chi guida la Scala ha oggi una carenza davvero preoccupante di sostrato culturale e drammaturgico.
Proporre nel 2018 l’operetta di Strauss secondo i canoni con cui poteva farlo il Lirico negli anni sessanta, solo con ovviamente più ricchi e convincenti mezzi, è qualcosa di francamente aberrante. La corrosività del libretto? Sparita. Il sostrato di critica sociale? Assente. L’analisi dell’imborghesimento dell’ideale dell’amore? Nemmeno sfiorato. Il tema della vendetta come motore dei rapporti umani? Neanche intuito. Il problema del rapporto tra i sessi? Ignorato.
Perché un contribuente italiano dovrebbe sovvenzionare una serata impostata per cercare di far ridere chi può permettersi il costoso biglietto?
Infatti la vera natura dell’impresa si palesa durante i (tiepidissimi) saluti finali: la povera scenografa Heike Scheele cade parzialmente nella buca del maestro suggeritore, il pubblico ammutolisce, tutti a casa. Tutto come prima.
Che gioia!!!…. Violamargherita su la voce del loggione!!!!……. Questa sì che è una buona notizia!!!!…
#violamargherita
#evviva
#astenersi.autoclavisti
#maestra.di.tutti.noi
Sono nella condizione di avere la musica dentro – fin nel profondo dell’anima, avendo ascoltato due volte in questo weekend, una per cast, la sconvolgente La Boheme al Comunale di Bologna. Sono nella condizione di non aver bisogno di ascoltare altra musica perché avrò dentro questa per giorni (in musica e anche in immagini. Puccini, Mariotti, Vick). La mia intenzione per i prossimi giorni è che ascolti e visioni diventino da 2, 4! Ovvero, due per cast. Perché ognuno dei due cast offre qualcosa di meraviglioso nel quadro di un progetto. Ognuno degli artisti offre vita. Il punto è che, qui, è cambiata, o comunque, si è esaltata – ma come fosse la prima volta! – la mia percezione de La Boheme. Mi trovo nella condizione di non aver voglia di ascoltare (e vedere) altro: La Boheme, La Boheme, La Boheme, qui, a Bologna, con Michele Mariotti, con Graham Vick, con tutti i cantanti dei due cast, con il coro, con l’orchestra.
Sto ascoltando e vedendo La Boheme della mia vita.
Con amicizia.
marco vizzardelli
Come preannunciato acquistati biglietti per altre due repliche, de La Boheme a Bologna una per cast perché entrambi meritano. Quando ce vo’ ce vo’. E questa stramerita d’essere ascoltata e vista quattro volte. Non tocco dischi né ascolto altro per tutta la settimana. Me ne sto dentro La Boheme della mia vita.
marco vizzardelli
Sull’edizione bolognese de la Repubblica è uscito questo articolo a firma Luca Baccolini nel quale mi ritrovo.
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Se i giovani d’oggi sono davvero quelli immaginati da Graham Vick – ragazzotti incapaci di costruirsi non un avvenire, ma nemmeno un presente, paralizzati alla vista della morte, restii a prendersi le minime responsabilità morali – forse bisogna cominciare davvero a preoccuparsi per il mondo che verrà. La Bohème del regista inglese, che venerdì sera ha aperto con successo plenario la stagione 2018 del Teatro Comunale, è un ritratto impietoso della generazione dei figli dei figli del ’68, studenti universitari degli anni ’90 che rispetto ai padri hanno perso gli ultimi lacerti di idealismo, dedicando la propria vita al contrario del bene comune: individualismo, frodi di basso cabotaggio, inclinazione al mercimonio delle carni e via parafrasando nel vortice dell’abiezione.
La brutta notizia è che quei giovani potrebbero oggi essere padri e madri. La buona è che non tutti sono così. Ma quando Rodolfo, Marcello, Schaunard, Colline e Musetta – ovvero i cinque che hanno appena visto morire Mimì di stenti – col cadavere ancora caldo fuggono scandalizzati come se quella morte non li riguardasse, un potente richiamo al presente obbliga tutti a riflettere. E se fossimo così anche noi? E se quei giovani in fuga, ora a piede libero nel mondo mentre il cadavere dell’amica comincia a puzzare, fossero anche il nostro ritratto?
Poche regie come questa hanno sollevato un dubbio morale tanto atroce e vicino. E così la Bohème di Vick, supportata dalla migliore direzione di Michele Mariotti a Bologna (lui che in Puccini era assoluto debuttante, quando invece sembra esservisi nutrito nella placenta), è andata oltre ogni cliché pucciniano. Le lacrime di commozione, che pur ci sono state (anche dello stesso Mariotti, mentre gli veniva tributata giustissima ovazione) son diventate perlopiù sgomenta e ammirata paralisi.
Luca Baccolini
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m.viz
Ma LAVOCEDELLOGGIONE non è stata concepita per discutere principalmente della produzione scaligera? Ho letto invece quasi esclusivamente commenti entusiastici sulla Boheme di Bologna…..sarà, ma io ho in mente altre produzioni scaligere che rappresentando fedelmente il contesto pucciniano lo esaltavano facendone un capolavoro romantico/verista, testimone di un epoca non solo storicamente ma anche musicalmente.
Oggi nel campo operistico, ma non solo, l’involuzione è tale che si è arrivati al punto di osannare regie “innovative” che poco o nulla hanno a che fare con lo spirito originale di cui erano pervasi compositore e librettista: come si suol dire, “chi si accontenta gode,”ma perché c’è questa specie di parossistica ossessione ne volere trasportare tutto ai nostri giorni? Purtroppo, la verità consiste nel fatto che Gershwin e Bernstein non hanno trovato validi imitatori/successori ed allora non si trova di meglio che profanare i “musei”, vero Vizzardelli?
Salve, sono ancora relegata a Vancouver, ancora per una settimana, tornerò il 1° febbraio passando per Monaco per vedere e sentire Sigfrido (ma mi asterrò da farne un commento qui, non temete!). Dopo il commento di Alberto mi è venuta voglia di intervenire perché anch’io stavo pensando che questo bisogno di innovazione nell’opera lirica di fatto può sfogarsi solo nella regia perché chi oserebbe mai modificare il libretto? Eppure deve essere suonato molto strano agli spettatori di Bologna sentire Mimì dire “la mia cuffietta, la mia cuffietta”, visto che era rappresentata come una millennial drogata! E così molte altre espressioni del libretto avranno fatto a pugni con la scena e con l’atteggiamento dei cantanti. Del resto cosa fareste per dare un’aria nuova ad opere di repertorio che hanno tutte più di cent’anni? Certo sarebbe meglio e più geniale che qualcuno riscrivesse l’opera in chiave moderna, con musica e libretto nuovi, come ha fatto Bernstein (sempre lui!) che ha riproposto l’eterno dramma di Giulietta e Romeo trasformandolo in West side story; questo sì che significa innovare! Alla maniera dei registi si rischia invece di fare delle Gioconde coi baffi alla Dalì, geniale alla sua maniera, ma, appunto, serve un colpo di genio che non sempre si verifica, almeno nella mia esperienza. Sicuramente non mi è parso geniale il Faust di Michieletto a Roma, nonostante sia piaciuto a molti (a me è piaciuto moltissimo per la direzione di Gatti): banalizzare il mito di Faust, trasformando un sapiente (un “dottore”), che ha passato l’età della maturità – lacerato fra sacro e profano, con aspirazioni al divino e al demoniaco, ma pur sempre con una sua grandezza -, in un giovane senza arte né parte, bullizzato e depresso, a me non dà particolari brividi di modernità, ma mi fa solo pensare che la nostra sia un’epoca di decadenza, incapace di capire i grandi miti della storia dell’uomo. Non è il caso della Bohème, ovviamente, qui non si parla di un mito classico, eterno, quindi ci si può prendete più libertà e l’operazione di attualizzazione è certo meno rischiosa.(tengo a precisare che io non l’ho vista e quindi sto facendo un discorso in generale). Però mi domando perché piacciano ancora tanto i film e le serie TV in costume e poi all’opera non si osi più fare un’opera lasciandola nel suo contesto originario. Forse a pensarci bene è anche più difficile…
Saluti a tutti Attilia
Un caro saluto a tutti Attilia
Da quanto mi dicono, del Pipistrello non c’è molto da dire, se non male. Io ci andrò fra una decina di giorni, perciò mi astengo da commenti.
Ho invece ascoltato alla radio la Bohème di Mariotti/Vick e devo dire che la direzione di Mariotti mi ha veramente impressionato. Mai avevo sentito una forza tragica simile, e sin dall’inizio. Karajan e Kleiber non erano certo da meno, ma la loro grandezza era diversa, più giocata sulla bellezza del suono e sull’espressione dei sentimenti e anche supportata da compagnie che oggi ci sogniamo.
Mi ha convinto meno Vick, per le cose che ha detto nell’intervallo: gli studenti fuori sede a Bologna ci stanno, ma le osservazioni di Attilia mi sembrano pertinentissime.
Anche la Bohàme di Michieletto ambientata a Parigi finiva per andare contro il libretto: i quattro bohémiens vevivano sfrattati per davvero e finivano sul lungo-Senna coi loro materassi, e questo può starci. Ma quando Mimì arriva al quarto quadro sfinita dalla tisi e si sdraia su un materasso en pein air cantando “Come si sta bene qui”, ti vengono i lucciconi, ma dal ridere.
Vittorio,
Ciao a tutti
Sarò breve e sintetico: una vera delusione , una vera m………..
Ciao
Vitt.
Troverei opportuno, in effetti, che il bel forum La Voce del Loggione si sganciasse, a questo punto, da cronaca esclusiva di quel che avviene in via Filodrammatici. Il mondo è vasto e c’è tanta splendida musica da ascoltare!
Per questo, ogniqualvolta ascolterò o vedrò uno spettacolo degno ne riferirò, ovunque esso abbia avuto luogo
marco vizzardelli
esatto, e’ un arricchimento per tutti, bene..
Forse, allora, è il caso di cambiarne l’impostazione.
Vista su Rai5 la Bohème di Vick/Mariotti. Premesso che con la ripresa Rai della direzione d’orchestra uno si può fare un’idea dai lacerti dove suona solo l’orchestra, mentre per il resto spadroneggiano i radiomicrofoni dei cantanti, confermo l’impressione fortissima della lettura di Mariotti, ormai pronto per i traguardi più impegnativi in Italia e all’estero, e anche la pertinenza della regia di Vick. Volendo ambientare l’opera tra i fuori sede (e fuori corso) bolognesi, quello che si vede ci sta. Non ho capito da che cosa si arguisce che i 4 bohémiens sono finti poveri figli di papà. Su tutti mi sono piaciuti la Sicilia (bellissima Corinna nel Viaggio a Reims di Roma diretto da Montanari) e Alaimo, anche lui bravissimo baritono rossiniano
Ferocissimi e cattivissimi i commenti su questo Pipistrello in prima rappresentazione assoluta alla Scala dopo quasi centocinquant’anni (sempre fra i primi, questo teatrone). Devo dire però un po’ ingiustificati. Certamente non stiamo parlando di una versione di riferimento; partendo dalla bacchetta, Cornelius Meister non vale Kirill Petrenko e Manfred Honeck, e nemmeno Zubin Metha. Dalla sua ha una certa predisposizione all’ordine, al gusto, alla sobria eleganza. Tende però a condurre il tutto un po’ anodicamente e l’elettricità vaporosa e spumeggiante non sa dove stia di casa o, per lo meno, a realizzarla con l’orchestra del teatro, esatta sì, ma un po’ legata. La sua navigazione procede sicura, senza alcuna infamia, ma neppure soverchia lode; eppure in porto ci arriva. I cantanti, stranamente, appaiono appena accettabili, si dice per colpa di malesseri e influenza. La Mei non appare in parte, priva di sensualità e di brio e afona nelle zone gravi della Czardas (ad esempio); Daniela Felly, pur avendo un background nella parte di Adele pluriennale in giro per il mondo, appare molto leggera con qualche problema nelle agilità, anche se pare non fosse in condizione. Peter Sonne tenoreggia una parte solitamente baritonale con spirito più mozartiano che straussiano, mentre il migliore resta Werba, anche se a sua volta appare più seriosamente operistico dell’auspicabile. Tra direzione e cast, insomma, si inneggia allo champagne, ma le bollicine sono svaporate.
La regia e la messa in scena sono gradevoli in un’ambientazione che pare altoatesina (nel programma di casa viene dichiarato essere invece un paese austriaco) e che giustificherebbe in tal modo l’alternanza, anche nella stessa frase, tra italiano e tedesco, capacità propria delle popolazioni bilingue. A volte qualche pesantezza da “vaudeville” non è tale da comprometterne la riuscita e la recitazione è curata.
Avremmo desiderato complessivamente molto di più per questa “prima assoluta”, ma ci siamo gradevolmente accontentati.
Dimenticavamo Paolo Rossi: non eccede, non sbraca, è fedele al suo testo. Si sorride ad un paio di battute. Pensavamo peggio.
Saluti
-MV
Pensavamo peggio??? Ma peggio di così penso sia difficile, si tratta di una inaudita pagliacciata: essendo oltretutto una prima rappresentazione per La Scala, un minimo di buon gusto avrebbe dovuto consigliare una perfetta aderenza allo spirito originale dell’opera. Ma tant’è , ormai i registi fanno a gara nell’inventarsi ogni genere di scelleratezze
infischiandosene di musica e libretto…..anzi, adesso iinseriscono anche contaminazioni alla Paolo Rossi che con Strauss c’entrano come i cavoli a merenda, mentre si ha notizia di un Guglielmo Tell a Palermo con un’altra regia “cervellotica” di Michieletto.
Se l’obiettivo è quello di far collassare il più velocemente possibile il teatro d’opera, la strada intrapresa, spesso con la complicità di una critica accomodante, è senz’altro quella giusta: ci si è infilati in un vicolo cieco ed il muro dove si andrà inevitabilmente a sbattere è sempre più vicino.
Le “contaminazioni” sono nel dna del genere. “Spirito originale dell’opera” è qualcosa di alieno ad ogni possibilità di realizzazione, visto che occhi e orecchie di oggigiorno hanno visto e ascoltato cose che nel 1875 non esistevano. Giusto lo champagne è rimasto . Ma credo che anche quello abbia oggigiorno un sapore diverso.
Saluti
-MV
Spirito originale significa ricreare sulla scena ciò che compositore e librettista intendevano fosse realizzato perché se non c’è sintonia con musica e testo si crea qualcosa di diverso che a qualcuno potrà forse anche piacere ma che non corrisponde all’intento originale.
Qualcuno, ha scritto che proporre una regia che ricrei l’atmosfera propria di un’opera sia forse più difficile……certo, di Strehler purtroppo non ne sono più nati.
Non sono per nulla d’accordo. Nel 1874 ci si rivolgeva a un pubblico del 1874. Ora siamo nel 2018. Una messa in scena del 1874 probabilmente mi farebbe solo ridere. E probabilmente mi farebbe ridere anche il suono di un’orchestrina del 1874. Ciao
-MV
Non ho visto lo spettacolo e non ho alcuna intenzione di andarci. Per cui mi riferisco solo ai commenti. “Ci siamo gradevolmente accontentati” e “pensavamo peggio” sono… il più avvilente (per il teatro) commento che la Scala possa ricevere se decide di rappresentare – finalmente!! – questo assoluto capolavoro del tearo d’opera. In realtà Vono è stato (credo giustamente) più feroce dei feroci. Se si rappresenta Die Fledermaus alla Scala, e per di più per la prima volta, e si casca in un’aurea mediocrità (ciò si evince, in sintesi, da tutti i commenti sopra pubblicati), questo è il peggior fallimento immaginabile.
Ad ampia scusante, indubbiamente, c’è la rinuncia forzata di Zubin Mehta, sostituito da un discreto routinier pipistreliista seriale (certo, aver fermato d’autorità un Honeck sarebbe stata una grazia e io mi sarei precipitato a teatro). Ma è il concetto di fondo che non va.
“Ci siamo accontentati” e “pensavamo peggio” certificano un sostanziale fallimento.
Ma Il Pipistrello è un capolavoro assoluto! E come tale andrebbe trattato, alla Scala!.
marco vizzardelli
… e proseguiamo. Ora ci becchiamo (vi beccate, chi ci andrà) l’ennesima replica di un brutto Simon Boccanegra valevole solo per Chung.
Poi arriverà Orfeo-Mariotti-Florez ma… la Scala non ha ritenuto doveroso inserire questo spettacolo, né la ripresa del Fidelio affidato a Chung (due vertici dell’attuale stagione) nei turni di abbonamento. Gli abbonati “si accontentano gradevolmente” anche di queste gentilezze loro rivolte dalla dirigenza scaligera?
Non ho visto lo spettacolo e non ho alcuna intenzione di andarci. Per cui mi riferisco solo ai commenti. “Ci siamo gradevolmente accontentati” e “pensavamo peggio” sono… il più avvilente (per il teatro) commento che la Scala possa ricevere se decide di rappresentare – finalmente!! – questo assoluto capolavoro del teatro d’opera. In realtà Vono è stato (credo giustamente) più feroce dei feroci. Se si rappresenta Die Fledermaus alla Scala, e per di più per la prima volta, e si casca in un’aurea mediocrità (ciò si evince, in sintesi, da tutti i commenti sopra pubblicati), questo è il peggior fallimento immaginabile.
Ad ampia scusante, indubbiamente, c’è la rinuncia forzata di Zubin Mehta, sostituito da un discreto routinier pipistrelista seriale (certo, aver fermato d’autorità un Honeck sarebbe stata una grazia e io mi sarei precipitato a teatro). Ma è il concetto di fondo che non va.
“Ci siamo accontentati” e “pensavamo peggio” certificano un sostanziale fallimento.
Ma Il Pipistrello è un capolavoro assoluto! E come tale andrebbe trattato, alla Scala!.
marco vizzardelli
… e proseguiamo. Ora ci becchiamo (vi beccate, chi ci andrà) l’ennesima replica di un brutto Simon Boccanegra valevole solo per Chung.
Poi arriverà Orfeo-Mariotti-Florez ma… la Scala non ha ritenuto doveroso inserire questo spettacolo, né la ripresa del Fidelio affidato a Chung (due vertici dell’attuale stagione) nei turni di abbonamento. Gli abbonati “si accontentano gradevolmente” anche di queste gentilezze loro rivolte dalla dirigenza scaligera?
OT
per chi voglia godere un’oretta di interpretazione meravigliosa – https://www.youtube.com/watch?v=z4tPb0RyboU
MV se non vuoi capire, pazienza. Ma la musica del 1874 è stata forse cambiata? Non mi risulta, eppure è figlia di un’epoca che non ci appartiene più e che fa a pugni con roomba, cellulari ed altre amenità varie. Ripeto, facciano cose nuove con nuovi ed attuali contesti e potranno sbizzarrirsi con regie che rispecchino i nostri tempi ed il nostro modo d’essere, altrimenti continueremo ad assistere a spettacoli che non sono né carne né pesce.
la musica non ha tempo e i sentimenti che la musica esprimono non hanno tempo; la realtà in cui questi sentimenti si concretizzano cambia costantemente. L’attualizzazione di una regia, se fatta bene, vuole proprio dichiarare l’universalità della musica e dei sentimenti, indipendentemente dal contesto temporale. In un intervista Michieletto dichiarava: io vivo il mio tempo, quando leggo un libretto d’opera lo vedo nelle persone che mi circondano, i sentimenti che cantano sono gli stessi delle persone che incontro tutti i giorni; non riuscirei a fare nulla di diverso che rappresentare la realtà che io vivo.
Una Butterfly perfettamente rappresentata nella sua epoca fa tanto bel colore orientale, la Butterfly di Michieletto ambientata in una periferia degradata di una metropoli asiatica con la casetta che diventa una prigione di cristallo mi ha straziato e illuminato: non ero mai riuscito a cogliere la significatività di alcuni passaggi del libretto prima di quella regia; solo una perfetta attualizzazione del libretto mi ha permesso di capirne totalmente la profondità.
Volendo, si può continuare con una lista lunghissima di altre regie attualizzate molto più illuminanti di quelle tradizionali; voglio citare solo un altro esempio: mille volte la Carmen di Emma Dante che non le “perfettamente tradizionali” Aide di Zeffirelli (che infatti definì Emma Dante “una donne irresponsabile, frutto di una cultura sbagliata”)
La musica è senza tempo, come tutta la produzione artistica, ma è sempre figlia del suo tempo: ogni produzione artistica nasce infatti influenzata dal contesto in cui l’artista vive e crea le sue opere.
Se così non fosse, ancora oggi ci sarebbe una produzione di tragedie greche piuttosto che
di canti gregoriani o dipinti di scuola giottesca, raffaellita, impressionista, ecc.
Per quanto concerne l’opera lirica, poiché non si sono manifestate nuove realizzazioni in grado di catturare il gradimento del pubblico, se non quello di 4 gatti e 2 cani, non si è trovato di meglio che “attualizzare” opere del passato…….a questo punto però, sarebbe opportuno specificare , come accade in teatro ed al cinema, che si tratta di “liberi adattamenti” tratti dall’opera XYZ, avendo inoltre cura e coraggio di aggiornare il libretto e,
magari, anche di rielaborare la musica. Nulla di male, tutto è lecito, basta specificarlo, dopo di che starà al pubblico decidere o meno la validità dell’operazione con buona pace di tutti.
Le note sono le stesse, ma ciò che viene provato al loro propagarsi molto diverso. Nel 1874 era il presente, per noi è un passato remoto . Mozart era vissuto dai suoi contemporanei con una carica rivoluzionaria e violenta oggi impensabile. La musica è universale perché emana messaggi in ogni tempo, non lo stesso messaggio valido per sempre. La violenza della sinfonia Fantastica che, all’epoca, produsse il più grande rumore artificiale mai udito da orecchie umane è irripetibile ad una popolazione sorda che ha conosciuto i motori a reazione e i martelli pneumatici, e via dicendo. Saluti
-MV
Manfred Honeck e la sua Pittsburgh Symphony Orchestra hanno vinto il Grammy per la miglior incisione sinfonica con il disco comprendente la Sinfonia nr 5 di Shostakovic e l’Adagio di Barber.
marco vizzardelli
Pamo,dimenticavo, se ti piace il teatro di Emma Dante portato sempre alle estreme conseguenze e pervaso di un’angoscia esistenziale da incubo notturno mi è tutto chiaro.
Oltretutto lei è proprio specializzata in libere ispirazioni o liberi adattamenti che dir si voglia: benissimo, però, quando ciò accade, lo si precisi chiaramente.
chi più di Carmen porta tutto alle estreme conseguenze?
Le regie liriche di Emma Dante sono altro dalle sue piece teatrali. Non definirei la regia del Feuersnot uno spettacolo “portato alle estreme conseguenze” e tanto meno l’ultima sua regia, il Macbeth
De gustibus non est disputandum
LA VEDOVA ALLEGRA / TEATRO LA FENICE/VENEZIA / in scena fino al 13 febbraio
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“Il valzer che Danilo e Hanna non ballano”: qui, proprio nel punto “nodale”, il “non valzer” staccato da Stefano Montanari e il non valzer ideato da Damiano Michieletto toccano un grado, anche doloroso, di poetico struggimento che è la cifra di una stupenda Vedova Allegra, nella quale – come altre volte negli allestimenti di Michieletto – il sorriso e il riso trascolorano nella malinconia, nel rimpianto, nello struggimento. Si ride (molto!) ma si piange (anche, non solo le mie: dal mio palco arrivavano, in più momenti, umidi “soffiamenti di naso” dalla platea) in questa “Vedova” genialmente trasposta (balli compresi) praticamente negli anni in cui chi qui scrive veniva al mondo (io sono del 1958 e… la collocazione è, anno più anno meno, quella). Costumi arredi, pettinature (deliziose quelle femminili, Hanna su tutte) colori pastellati e danze sono di quell’epoca e – in una pertinente intuizione di MIchieletto – il denaro diviene movente e chiave drammaturgica al punto tale che il Pontevedero da salvare grazie al matrimonio di Hanna Glavari è, qui, la Banca di Pontevedero. Ma non si deve pensare ad alcunché di pesantemente didascalico. Non si è mai vista, su una scena, una banca così poetica (Michieletto saprebbe far poesia con un cavatappi!) e la “cifra” dello spettacolo è quella di una leggerezza aerea, spumeggiante (a tratti travolgente! Finale primo e inizio secondo atto), nel quale l’operetta trascolora in piano bar (memorabile l’orchestrina in scena!) in quell’ininterrotto trapasso fra divertimento e malinconica tenerezza di cui dicevamo: sono meravigliose quelle “grisettes” che, per il Danilo-1960, sono come il sogno di un tempo che fu…
A tutto questo, fa riscontro la nuvola di suono, creata in orchestra (che risponde benissimo!) da Stefano Montanari, che (in giacca e camicia, per la cronaca) rilegge a nuovo (come suo costume) la partitura, dandole una fisicità-non fisicità di splendida eleganza, fra spirito ed impagabili aperture liriche, perfettamente rispondenti a quanto avviene in scena. Ho sempre pudore a definire Montanari, perché trovo non abbia riscontri o paragoni, nel panorama musicale italiano: è violinista, clavicembalista, direttore ma ognuna delle tre definizioni rischia di rivelarsi riduttiva. Dal palco laterale (ideale , in questo caso) il mio occhio correva da lui alla scena e ancora a lui: “uomo-musica” è forse l’idea calzante: corpo, anima, gesti, volto, occhi… e suono. La musica esce da Montanari come un’avventura – freschissima e ogni volta nuova – nella quale tutta la persona è coinvolta. “Mi piace pensare di dirigere o suonare come se il compositore fosse ancora in vita e avesse scritto l’opera il giorno prima”: le sue parole, la sua filosofia artistica e il suo modo di fare, anzi, di “farsi musica”. Ed è quanto si trasmette, in maniera impagabile, a chi lo vede e lo ascolta. Stefano Montanari è un musicista unico e prezioso.
Il cast è compatto, senza particolari punte di eccellenza, ma forte di una bellissima partecipazione al progetto musicale e scenico che fa di questo allestimento un altro punto d’onore del Teatro La Fenice (ed è culturalmente perfetto, da parte del teatro aver mandato in scena questo allestimento del veneziano Michieletto nel cuore del Carnevale). La Vedova Allegra “vive” come nuova, nella sua eterna bellezza, nelle mani di Michieletto, di Montanari, di tutti gli interpreti. L’applauso finale ritmato sulle (spettacolose!) uscite in danza di tutti, direttore compreso, è un grazie – dell’anima lieta e intenerita – che nasce spontaneo.
marco vizzardelli
Appena sortito dal primo ascolto-visione de La Vedova Allegra Michieletto-Montanari a La Fenice, il pensiero immediato era stato “devo tornarci”, e la successiva decisione si è rivelata strategica, nella scelta dell’ultima replica, sagacemente programmata martedì 13 febbraio, ovvero, per Venezia (e per i luoghi di rito “romano”) l’ultima sera di Carnevale. Immaginavo che, dato il titolo e gli interpreti e il luogo, la serata sarebbe stata appassionante. E strategicissima si è rivelata la scelta di un posto di parapetto in palco di proscenio sulla sinistra, a picco sulla buca e con gli interpreti vocali in primissimo piano. Le attese sono state appagate e forse superate dalla realtà.
I ristoratori veneziani lamentano che – forse a causa delle restrizioni sulla frequentazione turistico-carnevalizia – quest’anno la gran kermesse sia stata meno affollata ed effervescente. Ma il Carnevale è nell’anima e nella cultura veneziana, e, per l’ultima sera, La Fenice non si è fatta – e non ci ha fatto mancare – nulla. Diverse, nel pubblico, le persone in costume. Ma il meglio è venuto dall’orchestra e – come prevedibile – dal direttore stesso de La Vedova Allegra.
Gli orchestrali – ad libitum – hanno scelto se suonare in costume o in frac, ma chi lo ha fatto ha dato vita, in buca, a qualcosa di strepitoso. Notati, fra gli altri, un corno-leone con maestosa criniera, un candido corno-pulcinella, tre tromboni (maschi)-suore, le due “spalle” (poi autori, nell’opera, di splendide sortite violinistiche) rispettivamente un Balanzone e una poliziotta. Ancora: una dama veneziana e diversi orchestrali in frac “sormontato” da lunghissime parrrucche rosso-Milva. E, a proposito di cantanti di musica leggera, la fila degli ottoni, per tutta la mezz’ora prima dell’inizio previsto alle 19, ha accolto il pubblico entrante in sala con le note in fanfara, eseguite già in buca, della storica “Chariot”, di cui in Italia si ricorda la grande interpretazione di Betty Curtis: immaginatevi il pubblico che entra nel tempio veneziano della lirica sulle note di “la terra, la terra, ci porterà fortuna, la luna, la luna ecc.”. Strepistoso!
A questo punto, chiaramente, l’attesa era tutta per la “mise” del direttore, trattandosi di Stefano Montanari. Non ci ha deluso: elegantissimo completo BIANCO giacca-pantaloni sopra polo girocollo candida coordinata alla giacca nell’intarsio ORO di… un teschio, in pieno petto. A Montanari, l’orchestra ha fatto gentilmente trovare il grosso leggio con la partitura della Vedova completamente invaso da stelle filanti, che il direttore, dopo aver squadrato mettendosi le mani sugli occhi i costumi di coloro che stava per dirigere, ha buttato sul pavimento con una sana risata. Puntualmente – durante l’intervallo seguente il primo atto – gli orchestrali hanno nuovamente colmato di stelle filanti il leggio del direttore che, questa volta, rientrato sul podio a sala buia, ha rovesciato tutte le stelle filanti sugli spettatori delle prime file di platea, augurando con un inchino un cortese e ben udibile “buona sera!” a tutto il pubblico.
La cronaca artistica registra una tipica, intrigantissima, esecuzione orchestrale, corale, vocale e scenica “da ultima replica”: tutti a buttare il cuore al di là dell’ostacolo, in gioia e libertà. L’orchestra, scioltissima e aizzata in ritmi e languori, ha trovato nuove sonorità anche acide e ironiche, rispetto alla replica iniziale cui avevo assistito. Montanari ha molto “disteso” le parti più liriche dal secondo atto in poi (duetto Camillo-Valencienne) visibilmente beandosi e beandoci della musica. La componente “tenera” e nostalgica è aumentata, nella sua direzione, in corso di repliche. Tutta la compagnia è parsa ancora rafforzata nella resa scenica. Ulteriormente esilaranti i “recitanti” Hawlata e Macek. E vieppiù scintillanti le due coppie: Nadja Mchantal-Hanna, che canta bene e recita e balla come una dea, Christoph Pohl-Danilo deliziosamente sbrindellato negli abiti e cravatta in disordine da “piacione” un po’ malinconico. E, nel duo Valencienne (Adriana Ferfecka)-Rossillon, il Camillo di Konstantin Lee è, forse, l’elemento maggiormente cresciuto, dagli “inizi” di questo spettacolo, la Vedova Allegra Michieletto-Montanari che è stata già abbondantemente raccontata, e che è stata tappa sicuramente appagante lo spirito e l’occhio e l’orecchio fra quanto abbiamo visto e ascoltato, in giro per l’Italia, in questi primi mesi di stagione 2017-18.
Ah, manca il saluto carnevalesco finale: la già nota sortita in danza si è arricchita di direttore in occhialoni arcobaleno e Maestro del Coro Claudio Marino Moretti in veste di “mostruoso” angelo nero munito di fiammanti ali rosse, fra gli applausi ritmati del pubblico. Venezia, La Vedova Allegra, l’ultima sera di Carnevale: “semel in anno…”. Fuori dal teatro, ci ha accolto una favolosa notte veneziana trapunta di stelle. La terra, la terra, ci porterà fortuna, la luna, la luna………..
marco vizzardelli