Concerti
Stagione della Filarmonica della Scala
20 aprile 2015 ore 20:00
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Milano, Teatro alla Scala

Direttore Daniele Gatti
Richard Wagner
Eine Faust-Ouverture
12 minuti
12 minuti
Franz Liszt
Orpheus
13 minuti
13 minuti
Robert Schumann
Sinfonia no.2
38 minuti
38 minuti
Decisamente sotto il minimo sindacale. Dal punto di vista qualitativo, aurea mediocritas.
Ovviamente, sono pareri del tutto personali.
Arriva alla Scala con un programma tutto pensiero e sentimento, ma per nulla spettacolare. L’orchestra fatica parecchio in un Wagner del 1844 (la Faust-ouverture), ostico, frammentario e un po’ arido pur nella pienezza di idee infuse dal podio, poi ecco due letture da Padreterno di Liszt e soprattutto Schumann, che lega e spiega tutto l’impaginato. E’ Daniele Gatti, di passaggio a Milano prima del prossimo Falstaff. Lui. sempre più essenziale nel gesto, semplice e mai esibito nel modo di porsi quanto profondo nella lettura, nello “scavo” della musica. La Filarmonica, nella sua formazione migliore – De Angelis in pole position, l’arpa della Prandina una meraviglia nell’Orfeo di Liszt, i corni giusti con il giovane spagnolo giusto, anche i timpani giusti senza il bombardiere – lascia intendere cosa potrebbe succedere in un annetto di cura-Gatti. Prove e studio, e risultati. E il concerto, breve in fondo e a tasso zero di spettacolarità ma tasso un milione di intelligenza, diventa un ulteriore dimostrazione dello stato e stadio di grazia e libertà mentale e di cuore di un direttore che si esprime, a 53 anni, come accadde all’Abbado meraviglioso della piena maturità, quando mente e cuore, appunto, parvero liberarsi facendo della musica una continua evoluzione. L’integrale delle sinfonie di Schumann da parte di Daniele Gatti sarà uno dei capisaldi della prossima, meravigliosa stagione di Santa Cecilia, a Roma. E la Sinfonia nr 2 in Do maggiore ne è stata, a Milano alla Scala, un assaggio tale da fer venire l’acquolina in bocca. Eppure, siamo certi – ed è il bello – che la stupenda lettura data a Milano potrà cambiar connotati, in altro contesto, a Roma. Qui, Gatti l’ha voluta ed eseguita come sintesi di un concerto dedicato al Romanticismo (ma un romanticismo non dimentico dei suoi precedenti) vissuto come sogno, visione, forse a tratti anche incubo, nel quale, alle spalle di Wagner, di Liszt, e soprattutto di Schumann, vegliava un’ombra – quella di Felix Mendelssohn (di cui Gatti è felicissimo interprete, in particolare, di un’Italiana nella quale legge, in maniera tutta speciale, un mondo di inquietudini). Allora, in questo caso, la Seconda di Schumann era sì, ombrosa, giustamente sghemba negli scarti ritmici dello Scherzo (brava davvero, qui, la Filarmonica), distesa ma pudìca nell’adagio-capolavoro (che abisso di bellezza, questo brano!), risolutiva (ma fino ad un certo punto) dalla ombre alla luce nel finale. Ma con un equilibrio – nel dettaglio di una concertazione capillare ma ricondotta ad unità (che è il segno del Gatti di questi anni) – rimandante, appunto, a Mendelssohn. Non è detto che a Roma, nel quadro dell’integrale, la lettura sarà identica. Anzi, sono da aspettarsi sorprese, da un direttore per il quale ogni concerto, ogni opera, ogni serata, sembra diventare – a godimento di chi ascolta – una nuova avventura dello spirito (e in questo c’è moltissimo in Gatti – nello spirito, si badi, pur nella differenza delle letture e dello stile – dell’Abbado maturo). Ciò che colpisce – ad ogni ascolto, da Parigi, ad Amsterdam, a Milano i nostri più recenti – di questo direttore è che il suo far musica – assieme alle orchestre che dirige – è sempre più un lavoro “dell’anima” (la tecnica è strumento, mai fine) e “nell’anima” lasciato alla riflessione (e al cuore: Gatti mai dimentica il lato emotivo) dell’ascoltatore, in una conquista di libertà espressiva che ogni volta affascina ed avvince. Così, l’ascolto diventa, ogni volta, una meravigliosa avventura dello spirito, cui partecipano mente e cuore (mi accorgo che ho detto lo stesso, di recente, di un paio di regie – in particolare Un Viaggio a Reims ad Amsterdam e le folgoranti Divine Parole al Piccolo di Milano – di Damiano Michieletto: non è un caso, ed è bella e forte la circostanza in cui il lavoro e l’opera d’arte si fanno vivere, da chi ne fruisce e ne è investito, a questo livello).
marco vizzardelli
marco vizzardelli
Serata sobria, essenziale, dove la mancanza di brani spettacolari o “strappa-applausi” ha fatto emergere in pieno l’intelligenza, la raffinatezza, la sensibilità musicale e la profondità di analisi di Daniele Gatti che, anche in questa occasione, non ha deluso le aspettative in lui riposte, mandandoci a casa rigenerati e completamente soddisfatti. Unico neo, la maleducazione di una parte del pubblico della platea: appena terminata la musica (mancavano pochi minuti alle 21:40), si è subito alzata per uscire frettolosamente da teatro….paura di perdere la metropolitana?
Sì, uno Schumann prezioso, elegante condotto con una concertazione capillare ma mai dispersiva in cui il connotato principale era l’affinità al mondo fiabesco non privo di inquietudini di Mendelssohn (nel quale Gatti tende a rilevarle molto nei contrappunti, quasi che l’ombra di Bach possa generarle) piuttosto che la passione iperbolica a cui classicamente associamo Schumann. Peraltro l’intera poetica schumanniana è racchiusa nella contrapposizione tra le due anime “Florestan” ed “Eusebius” e non vi è niente di strano che di volta in volta si possa preferirne ora l’ una o l’altra.
Eccellente la prestazione orchestrale, soprattutto in Schumann, la qual cosa ovviamente mi rafforza sempre più la convinzione che La Scala abbia sbagliato tutto nelle scelte artistiche e gestionali degli ultimi anni.
L’impaginazione del programma, molto meditata e che presupponeva un ascolto consapevole, condotta attraverso il fil-rouge del romanticismo, in realtà all’ascolto soprattutto della prima parte dove sia Wagner che Liszt sperimentano nei fatti nuovi impasti sonori ed una originalità d’orchestrazione (la frase iniziale della Faust-Ouverture affidata al solo del basso-tuba, il tappeto-obbligato dell’arpa con i soli del violino e violoncello nell’Orpheus), splendidamente evidenziati da Gatti, mi faceva fantasticare ad una seconda parte dove il divisionismo timbrico ancora più si evolve, chessò ad un “Prelude à l’après midi d’un faune” di Debussy, con il protagonismo del flauto unita ad un “Poème de l’Exstase” di Scriabin, con le volate della tromba.
In ogni caso l’integrale-Schumann a Santa Cecilia dell’anno prossimo sarà un appuntamento da non perdere.
Saluti
-MV
vorrei cogliere una considerazione di Vono per porre il tema dell’ordine dei brani di un concerto: il rapporto tra brani della seconda parte del concerto e quelli della prima parte.
Il brano (o i brani) della prima parte di un concerto arrivano ad un ascolto “vergine”, mentre quelli della seconda parte sono (direi quasi “purtroppo”) influenzati dall’ascolto della prima parte.
A mio parere, un’impaginazione di un programma di concerto che rispetti l’ordine temporale dei brani tipicamente aiuta l’ascolto della seconda parte del concerto (infatti l’ascolto di Wagner e Liszt ha fatto volare la fantasia di Vono verso Debussy e Scriabin).
Invece mi sembra che ultimamente non ci sia molta logica nell’ordine di esecuzione dei brani. L’esecuzione di una sinfonia di Schumann dopo aver ascoltato Wagner e Liszt non aiuta ad apprezzarne i dettagli del sentimento perché l’orecchio è “sporcato” dall’ascolto di orchestrazioni ricercatissime al cui confronto quella di Schumann risalta per eccessiva semplicità. Il “fil-rouge del romanticismo” (continuo a usare a prestito Vono) sarebbe risultato più evidente con un’esecuzione di Schumann prima di Wagner e Liszt.
Facendo un altro esempio vicino, quello strepitoso concerto della Verdi con Bignamini, secondo me, ha sofferto dello stesso problema: due esecuzioni memorabili della prima di Mahler e della quinta di Beethoven ma non si può ascoltare una quinta di Beethoven dopo Mahler!
L’impaginazione del programma non era immune senz’altro da un desiderio di sperimentazione. Viceversa il concerto di Bignamini ha subìto una concezione da “marketing” più che artistica, per cui si pensa, ancor oggi, che il pubblico vada ai concerti più per Beethoven che per Mahler.
Saluti
-MV
Concerto di una noia pazzesca.
Terza di Mahler alla Verdi raccapricciante.
Ma di cosa stiamo parlando?!
Bah…
beh, nessuno è andato a Ferrara per Currentzis che suonava Vivier e Shosta?
E’ andato Vizzardelli, il nostro direttore artistico. Ne riferirà 🙂 (credo)
@Ender: “noia” e “raccapriccio” sono sensazioni individuali. Cosa e perchè non le è piaciuto? Grazie
-MV
Theodor Currentzis si è palesato, rarissima apparizione italiana, mercoledì scorso a Ferrara, programma: Zipangu (“il Giappone) di Claude Vivier, Concerto per violino e orchestra in re min (solista Alexandra Conunova) di Sibelius, Sinfonia nr 1 in fa minore di Sostakovic.
Estremamente sobrio (contrariamente ad alcune foto sul web) ed elegantissimo il “look”: altissimo, abito giacca-pantaloni neri di taglio perfetto, su scarpe nere lucidate a specchio.
L’esito ha totalmente confermato la premessa delle note incisioni, mozartiane e non, e il nostro personale precedente “approccio”, in un Don Carlo parigino. Currentzis porta l’arte del dirigere e l’uso stesso dell’orchestra, e del “suono”, a concezione francamente “inaudita”. Si tratta di suono finalizzato ad espressione, e del trattamento dell’orchestra come… pedali d’organo. Con in più, rispetto all’organo, una pazzesca escursione dinamica, perfettamente sostenuta dal “braccio” di Currentzis (ma da tutto il corpo, gambe comprese, che “detta” scatti impressionanti), dal sussurro all’enormità. Il pezzo di Vivier (purtroppo poco più di un frammento,cche si basa su una personalissima cultura e concezione del suono cui concorrono elementi di una biografia tormentata) prevede dodici strumenti ad arco. Ebbene, il Comunale di Ferrara sarà pure raccolto e di acustica superpresente. Ma i dodici archi parevano una sola, immensa canna d’organo da cui sortiva una sonorità immane, densissima. Così pure, la graziosa violinista esibiva in Sibelius una linea classica, netta, pulita. Ma era come circondata, avvolta e immersa in un magma. C’era (e ha da esserci) il “dato” nazionale e “nordico” del lavoro (sì: il disegno iniziale degli archi pareva una rappresentazione del ghiaccio in musica) ma nel colore livido dell’adagio e nel “noir” (che noir!) della danza finale si coglieva qualcosa che va forse oltre l’identità stessa del pezzo, oppure la esalta all’estremo. Un critico inglese dal tipico umorismo la definì “danza di orsi bianchi polari”. Con Currentzis diventava un inquietante rito satanico del suono: e il gesto, la “chiamata” e il suono che ne usciva erano quelli di un organista che prema ipedali o tiri i registri, con in più “quella” dinamica: dal sussurro all’immane. Immaginabili (anzi: inimmaginabili e indescrivibili) gli esiti di tutto questo applicati alla stupefacente Prima sinfonia di Sostakovic. Stupefacente perché “Prima”, cioé lavoro iniziato da un Sostakovic studente di conservatorio: già ricolma (al di là, di nuovo, del dato “nazionale”) di quello spaventevole “nichilismo” in musica, che l’orchestra-organo di Currentzis (una favolosa Mahler Chamber, “parlante” più che suonante (qualche minimale sbavatura – tromba, peraltro splendida – rende il tutto addirittura più espressivo e bisognerebbe citare gli apporti del pianista, e soprattutto quello del timpanista) ha portato al limite dell’umanamente sostenibile, fino a quella “chiusa” secca, lapidaria, improvvisa, che lascia senza fiato l’ascoltatore. Si esce ammirati (dopo il bis a tutto estro della Gavotta dalla Classica di Prokofiev), ma anche – è il caso di dirlo, attoniti.
marco vizzardelli
grazie Vizzardelli.
ma perché a proposito del brano di Vivier parla di frammento? Zipangu è uno degli highlights di un compositore unico e ormai largamente eseguito in tutto il mondo tranne che in Italia.
e poi perché sempre riportare tutto alla “biografia tormentata”? che c’entra Zipangu con la biografia tormentata? non sarebbe il caso, Pasolini docet, di ascoltare con attenzione o leggere con impegno invece di riandare sempre alla biografia, specie quando questa si conclude con la morte violenta a seguito di incontro sessuale occasionale?
altrimenti si finirà per dire, come è avvenuto da parte di molti commentatori del film di Abel Ferrara sul poeta, che anche Vivier se l’era cercata e che tutto questo era già chiaramente percebile nella sua musica e altre fesserie del genere.
A latere di tutto credo che sia la prima volta in senso assoluto che a tre giorni dalla rappresentazione un concerto dei Berliner Philharmoniker sia a Milano quasi invenduto: 300 posti liberi ad ora, al prezzo popolare di 200 euro l’uno.
A Berlino, nella acusticamente perfetta Philharmonie (imparagonabile alla Scala) il top-price è poco meno della metà: 98 euro, a scendere. E si sente (e vede) ovunque magnificamente (per la cronaca, il concerto del 5/6/2015 di Barenboim, quindi tre giorni dopo quello di Rattle a Milano, risulta sostanzialmente esaurito, con 15 posti ancora liberi, peraltro di media categoria di prezzo).
Francamente che un Pereira che riesce a non fare il sold-out con i Berliner Philharmoniker diriga un teatro (non La Scala per forza, un teatro qualunque, anzi, diriga IN SE’ qualcosa) lascia attoniti.
Saluti
-MV
se 200 € sono già di per sé uno scandalo, ancor peggiore è il prezzo dei biglietti dei palchi in zona 2: sono posti a visibilità limitata (cioè praticamente nulla) e acustica ancor peggiore venduti (o meglio invenduti) alla modica cifra di 165€. In realtà dei 300 posti ancora liberi più della metà sono proprio posti di palchi zona 2
a tutt’oggi, due giorni prima del concerto, sul sito Scala salgono a 308 (dicasi 308!) i posti invenduti per il concerto dei Berliner Philarmoniker (dicasi Berliner Philarmoniker!) diretti da Rattle. Mi sembra che qualcuno (198 euro…) dovrebbe meditarci e cospargersi il capo di cenere, o magari, andarsene….
marco vizzardelli