Un ballo in maschera
Giuseppe Verdi
Nuova produzione Teatro alla Scala In collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna
Dal 9 al 25 Luglio 2013
Durata spettacolo: 3 ore inclusi intervalli
Cantato in italiano con videolibretti in italiano, inglese
- Si sa che Verdi aveva dovuto trasferire la vicenda di Scribe dalla Svezia ad altro luogo, per evitare di veder pugnalare in scena il Re Gustavo. La censura sosteneva che qualcuno del pubblico avrebbe potuto prendere esempio con altri re… La scelta cadde su Boston, col suo governatore Riccardo, un semplice conte che si poteva pugnalare senza problemi durante il ballo mascherato del titolo. L’ingiustamente pugnalato tenore è una rara figura di potente nobile, altruista e addirittura dibattuto fra un amore colpevole e profondi sentimenti d’amicizia: per chi non ricordasse, egli ama, riamato, la moglie del migliore amico.
L’amore del Ballo in maschera, nella sua straziante immensità, è stato addirittura paragonato a quello di Tristan und Isolde, anche se le differenze sono notevoli. Nell’opera c’è, per esempio, anche una trama di congiura e un’ambientazione pubblica vagamente festaiola.
Forse Verdi non immaginava che l’America del futuro, spesso (almeno all’apparenza) integerrima e puritana, avrebbe potuto anche avere punti di contatto con quella del tardo Seicento da lui descritta. Lo deve aver pensato, per la sua nuova produzione, il giovane regista Damiano Michieletto: attualizzazione, politica spettacolo, campagne elettorali, e magari una maga Ulrica simile a certi predicatori televisivi che fanno cadere in trance moltitudini di “fedeli”.
Direzione
- Direttore Daniele Rustioni
- Regia Damiano Michieletto
- Scene Paolo Fantin
- Costumi Carla Teti
- Luci Alessandro Carletti
CAST
- Riccardo Marcelo Álvarez (9, 12, 16, 19, 22, 25) Piero Pretti (15, 20)
- Renato Zeljko Lucic (9, 16, 19, 22, 25) Gabriele Viviani (12, 15, 20)
- Amelia Sondra Radvanovsky (9, 12, 16, 19, 22) Oksana Dyka (15, 20, 25)
- Ulrica Marianne Cornetti (9, 12, 16, 19, 22, 25) Marina Prudenskaya (15, 20)
- Oscar Patrizia Ciofi (9, 12, 15, 16) Serena Gamberoni (19, 20, 22, 25)
- Silvano Alessio Arduini
- Samuel Fernando Rado
- Tom Simon Lim
- Un giudice Andrzej Glowienka
- Un servo d’Amelia Giuseppe Bellanca
I catafalchi che infestano il teatro alla Scala hanno, come scontato, contestato lo spettacolo di Michieletto. Ora verrà puntualmente massacrato dalla Penna (pennino) del Corriere della Sera (con assenso di massonerie) e da altri scontati “organi” di stampa e/o comunicazione in rete. I catafalchi all’assalto del Michieletto, che può ben sentirsi onorato di essere sbeffeggiato dalle sacre bare. E’ un onore esser contestati dai morti. Sarebbe preoccupante che non contestassero Michieletto, altrimenti sarebbero vivi.
marco vizzardelli
ora, sul quotidianone o su altre pagine si attende un severo monito di Zeffy contro il grave sfregio alla Sacralità Immutabile del Teatro d’Opera perpetrato dal Michieletto. La sagra della boiata avrà luogo. Forza cassamortari! Fiato alle ossa!
marco vizzardelli
Ahahahah!! FIATO ALLE OSSA!! Sto ridendo come un pazzo. Voglio una rubrica con quel titolo! FIATO ALLE OSSA!! Ma che dico una rubrica? Un BLOG INTERO!
E’ vero! credo che il pubblico di ieri sera sia quanto di più ‘vecchio’ non solo in senso anagrafico e stantìo che un teatro possa avere. Il dissenso verso Michieletto mi ha lasciata basita: prevedibile lo credevo, ma con una tale unanimità di vedute non avrei immaginato nemmeno nella peggiore delle ipotesi. E pensare che, dal mio, a quanto pare, originale, punto di vista, se una cosa era da contestare era l’esecuzione orchestrale, alquanto appannata e opaca e la scelta di alcuni tra i cantanti, non all’altezza della situazione. Cmq anch’io sono curiosa di leggere i pareri dei critici, visto che in sala erano in molti. Tornando alla regìa, il secondo e terz’atto mi sono piaciuti moltissimo! Ho trovato geniale e intelligente la trasposizione ai giorni nostri e l’aver trasformato il governatore Riccardo in un leader politico in campagna elettorale. Secondo me a Verdi (quello stracitato ieri -a (s)prosito?- per la frase ‘Tornate al passato e sarà un progresso’, questo spettacolo sarebbe piaciuto!
Alessandra
certo, come non dare ragione a Vizzardelli.
e d’altro canto come non ricordare che ciò che Alessandra trova “geniale e intelligente” è stato già fatto pari pari da Peter Sellars in apertura della sua peraltro bellissima Teodora di Glyndenbourne nel ’95!
dunque la disputa sembra proprio fra morti e gravemente malati.
e nel frattempo tutto resta immobile come sempre e magari almeno si tornasse al passato per fare sto progresso!
Se la contestazione fa parte dello spettacolo quello che si è visto l’altra sera è stato il cattolicesimo politico culturale che a Milano, sempre forte e condizionante, si fa militante.
Se questi fossero vissuti all’epoca di Beethoween o di Verdi di sicuro erano dall’altra parte sempre a togliersi il cappello e chi sa se avessero gridato w VERDI .
<Una cultura che non fa discutere, non turba, non lascia domande è una cultura museale, morta.
Ma per questi il mondo inizia e finisce con loro, Il barocco di Zeffirelli unico orizonte, si scandalizzano per scene che attraversano la realtà; si scandalizzano per scene che vedono e bevono tutti i giorni, in tv nel dopo cena, nei viali scuri che furtivamente frequentano, nella pubblicità, nel web.
Come pensano di rivitalizzare il teatro, d'introdurre i giovani all'opera se non attualizzando, attraversando le emozioni oggi, per riconoscersi e incontrare l'opera.
E questo non c'entra con la spiritualità ma con il fondamentalismo cattolico che vuole condizionare la vita civile. Non è la prima volta prepariamoci.
TRISTANEIDE ESTIVA
MA CHE BETH – Il 20-6-2013 il noto critico Tristano di un noto giornale è a Firenze per il “Macbeth”, al Maggio fiorentino. Naturalmente, secondo lui, il regista Graham Vick “tradisce Verdi”.
Lo tradisce a causa della sua regia innovativa. Peccato che 15 anni prima, quando Vick aveva inventato alla Scala per il Macbeth diretto da Muti un “innovativo” cubo rotante, che spesso non girava e faceva fracasso, cosa scrisse Tristano? Leggiamo: 8-12-97: “Il regista Graham Vick ha inventato uno spettacolo felicemente a pianta unica, di tensione”, il “cubo rotante pare un catalizzatore”. E nella ripresa dell’opera, il 23-10-2011, ribadiva: “Il Macbeth andato in scena giovedì alla Scala può dai giornali esser spicciato come cosa secondaria, in quanto «ripresa» del meraviglioso allestimento di Graham Vick del 1997. Si tratta, invece, di uno dei più alti conseguimenti dell’anno verdiano in corso”. Fazioso.
COMPORTAMENTO BRITISH – Dopo aver fatto un esposto a un tassista milanese perché “parlava in dialetto milanese” (ma il nostro è solito inserire termini napoletani nei suoi articoli) cinque giorni dopo, il 25 -6-2013, il critico Tristano torna alla Scala, dove è “ospite non grato” a causa dei suoi comportamenti (non dei suoi scritti – legga bene l’associazione critici e il bla bla bla conformista – ma dei comportamenti in sala, tipo urla, schiaffi ad altri ecc ecc). Primo impatto? Controversia con una coppia di inglesi ai quali impedisce di vedere il palcoscenico. Due testimonianze lo provano. Una confida: “Il giornale non lo scriverà, ma stasera dopo Rheingold il maestro Isotta era in piedi a parlare con tizio caio durante gli applausi e ha clamorosamente sfanculato uno spettatore inglese che gli aveva chiesto di spostarsi perchè non vedeva gli artisti”.
Due giorni dopo (27-06-2013) ricorrono gli Ottant’anni di Claudio Abbado, un non ignoto direttore d’orchestra italiano nel mondo, ed è anche il giorno precedente alla conclusione del Ring wagneriano alla Scala diretto da Barenboim (il “Ring” in sequenza si è dato alla Scala solo negli anni Trenta e negli anni Sessanta). Tristano pubblica sul giornale (dove fa quel che vuole) – in evidente spregio a tutto ciò e ai lettori – un articolo sulla ripresa del “Don Pasquale” all’opera di Roma, diretto non da Muti ma da Bruno Campanella, il cui ultimo appuntamento era avvenuto ormai da circa 5 giorni. Ora, il giorno successivo a Italia-Spagna di calcio, ci si immagina di leggere qualcosa su questa partita oppure sul torneo giovanile nel Lazio conclusosi da 5 giorni? Ma ciò è in sfregio a quanto sopra: siete peggio del torneo giovanile.
P.S. Pochi giorni dopo, Tristano concede un’intervista sul tema dei “ricchioni” e “ricchioncelli” a “Il Foglio”, parlando in gran parte in dialetto napoletano. Ma non aveva fatto un esposto contro un tassista che parlava in dialetto milanese?
RING RING – Tre giorni dopo, il 30-06-2013, il nostro Tristano scrive finalmente sul Ring. Ma quale? Sì, quello di Barenboim alla Scala, “ma tra i Ring da onorarsi vi è ovviamente quello diretto da Riccardo Muti alla Scala, superiore a Barenboim per talento analitico e rifinitura”: sarebbe una valutazione critica se Muti avesse diretto le quattro giornate del Ring di seguito, come Barenboim, non se ha diretto le giornate della Teatralogia nel corso della sua vita! Difficile paragonare chi ha scalato 8000 mila metri in una volta e chi ha scalato quattro cime da 2000 alla volta.
MET DELLE MIE BRAME Il giornale per il quale scrive Tristano ha intervistato Fabio Luisi, direttore italiano chiamato a sostituire Levine al Metropolitan durante la malattia. Una normalissima intervista, nella quale Luisi accenna a qualche idea per il futuro del Met. Immediatamente Tristano apre una sotterranea campagna contro di lui buggerando pubblicamente il suo giornale. Il 2 luglio esce uno stranissimo articolo di Nazzareno Carusi su “Libero”, collaboratore di area romagnola intitolato “Due o tre cose che so su Levine, Luisi…” dove si attacca l’articolo del noto giornale e si continua a sostenere – con chiaro linguaggio da Tristano – che il noto giornale fa una campagna pro Luisi. Anzi, l’articolo ridicolizza i “responsabili spettacoli” del giornale. Poi sostiene che si tirerebbe una volata a Luisi per farlo arrivare alla direzione del Met o della Scala. Il tutto scritto da perfetto ventriloquo – se non di Dio – di Tristano: “Quindi capisco tutto, pure il fricicchio per la Scala, non si sa mai dovesse arrivare persino la nomina del nuovo direttore meneghino al cui proposito il sovrintendente Pereira , Dio ci scampi dai gatti che c’hai lì (ndr evidente riferimento al direttore milanese Daniele Gatti), sotto la tavola…”.
Ma non basta. Su un altro giornale “amico”, “il Giornale”, esce uno spillo che prende in giro il comportamento dell’altro noto giornale sul caso Luisi: chi l’avrà mai suggerito?
Poi arriva il gran finale: il 04-07-2013 Tristano incensa il “ritorno” (si fa per dire) di Levine alla Carnegie Hall: il tutto per incensarlo e screditare Luisi.
Ma i melomani non hanno l’anello al naso. E più d’uno lo capisce: “Non pensavo che un’intervista a Luisi fosse un edorsement per la sua candidatura al Met. Ma siamo pazzi? Ci si lascia svillaneggiare da questa masnada aizzati da Muti?”, scrive uno. E ancora: “Due cose scandalose e inquietanti: 1) un giornalista che lavora contro il suo giornale e mette in pubblico contrasti interni che lui stesso solleva per proprio tornaconto; 2) la campagna denigratoria nei confronti di Luisi, che nell’intervista (innocentissima) non aveva detto assolutamente niente contro Levine, semmai contro (ma neanche tanto) Peter Gelb, perché è lui che fa la linea artistica, mica Levine”. E dietro? Secondo alcuni ci sarebbe Muti, appunto, che forse sta facendo un pensiero al Met e cerca di farsi “raccomandare” da Levine descrivendo Luisi come un ingrato”. Così lo si sega anche (eventualmente) per la Scala.
CINQUETTI Non pago, Tristano interviene sulla “Norma”. La più grande Norma del ‘900 è il soprano Cerquetti (non Cinquetti?). E’ la massima Norma del Dopoguerra”: non Maria Callas. Nella Norma, dico! Nessuno, infatti, ha mai apprezzato “Casta diva” cantata dalla Callas, nessuno.
SCHIAVI EBREI Scontatissima (11-07-2013) la stroncatura del «Ballo in Maschera» alla Scala di Rustioni e Michieletto. Ovviamente la regia tradisce Verdi ecc ecc… Ma Tristano ci mette anche la bella dose di antisemitismo misto ad analfabetismo. “Si dica in una parola – scrive -: ho parlato dell’odio che si abbatte su Wagner, descrivendo regie specie tedesche che lo esplicitano; ma ora siamo a quella che Federico Nietzsche chiama la «rivolta degli schiavi» contro ciò ch’è grande e nobile. La rivolta degli schiavi si abbatte anche su Verdi”. Forse qualcuno non se ne è accorto e magari neanche l’autore che è “analfabeta filosofico” (uso il termine al pari di quello da lui usato in morte di Pavarotti, definito “analfabeta musicale”, in quanto privo di studi di alta qualificazione nel settore) ma questo è uno dei passaggi più profondamente antisemiti di Friedrich (non Federico) Nietzsche, in “Genealogia della morale”, cap. I : è l’odio degli Ebrei contro i contro «gli aristocratici», «i forti» e «i signori», scrive Nietzsche, che scatena l’odio e la malvagità degli Ebrei con i quali inizia “la rivolta degli schiavi nella morale”. C’è dell’odio antiebraico verso qualcuno della Scala nell’affermazione di Tristano?
“FIATO ALLE OSSA!!” Cominciamo questo commento sotto la protettiva egida della geniale esortazione di Vizzardelli. Da oggi in poi tale verbale stendardo accompagnerà ogni mio intervento che abbia lo scopo di raccontare uno spettacolo vilipeso dai “cassamortari”, ovvero da coloro che oggigiorno passano la loro esistenza a inchiodare assi di legno per costruire bare in cui rinchiudere gli spettacoli (generalmente TUTTI) visti. Su modello, un po’, se volete, dei vecchietti dei villaggi dell’ovest americano rappresentati dalla cinematografia western: generalmente sdentati, traballanti, dalla voce querula e dediti, appunto, a martellare chiodi e scavare fosse.
Devo, purtroppo, iniziare a parlare della regia di Damiano Michieletto. Non perchè consideri la regia l’aspetto preponderante di uno spettacolo (nemmeno l’infimo se è per questo), quanto perchè su di essa si sono concentrati i chiodi, le bare, gli ululati dei carnosi coyote, gli scritti farneticanti di un supposto critico di un importante quotidiano, i volantini stampati in tempo reale durante lo spettacolo (o no?!) e, ultimo ma non ultimo, parrebbe una larga fetta di pubblico del mitico turno A, a cui, povero Michieletto, è toccata in sorte la prima. Mitico turno A, ma anche mitologico perchè frequentato ancora da esemplari umani della più remota e leggendaria preistoria: gente VIVENTE che fischiò Mitropoulos nel Wozzeck pensando di fischiare Alban Berg morto diciassette anni prima (si era nel 1952!), che contestò alternativamente Maria Callas o Renata Tebaldi (naturalmente perchè o l’una o l’altra, dipende dagli schieramenti, non sapevano cantare, non avevano tecnica, non avevano espressione ecc.ecc.), che impedì a Karajan a suon di urla di proseguire una Traviata con Mirella Freni (1964), condannando una generazione, a Milano, a non ascoltare più il capolavoro di Verdi fino al 1990 e via discorrendo. Diciamo, per usare un eufemismo, un tipo di pubblico fortemente…conservativo. Dove la conservazione, idealmente, sono i teloni dipinti e i costumi quelli di Luigi Sapelli detto Caramba. Con una massa di spettatori il cui più avanzato orizzonte estetico è Deflo oppure Cavani bastano cinque o sei cassamortari ad iniziare a battere il pentolame ed il gioco è fatto, e mezzo teatro “viene dietro”. Ed ecco, artatamente, costruito un fiasco.
Ieri, per esempio, ad un turno differente, leggermente meno ingessato (era il D) il tentativo di “sommossa” di UN PAIO di cassamortari si è spento alle grida di “bravo” e ai numerosi applausi, nonchè alle grida di “bravo Michieletto”. E il gioco non è riuscito. A volte la “tempesta perfetta” riesce, a volte si disperde in una flatulenza nell’universo, è bene che i vecchietti del Far West se ne ricordino.
In un teatro che ha visto l’Ernani di Ronconi (1982), i cubi di Wick, i papaveri di Engel e più recentemente le proiezioni di Cassiers, Damiano Michieletto entra da leone in una foresta popolata da gazzelle. In primo luogo *nulla*, e ripeto, *nulla* della sua regia d’opera è contro la musica. Michieletto é *sempre*, e ripeto *sempre*, al servizio della drammaturgia verdiana. Due esempi che valgono come generalizzazioni, dato che sono i due esempi su cui il “cassamortarismo” si è dilungato. Atto II, scena I. Amelia è nell’orrido campo a cercare l’erba dell’oblio consigliatela da Ulrica. Qui l’orrido campo è collocato in una periferia suburbana con cavalcavia sullo sfondo e scalaccia di ferro che lo raggiunge. Questo orrido campo postmoderno non è *dove* esercitano le prostitute, ma il luogo in cui le prostitute si raccolgono prima o dopo aver esercitato, diciamo il loro luogo di pausa, dove anche litigano, se vogliamo. Michieletto che fa? Escogita una rapina da parte di una di quelle ai danni di Amelia: apriti cielo! Le bare da morto risuonano di sordi colpi dalle viscere della terra per lesa maestà, gratuità dell’azione, mancato rispetto del regista per il difficile momento vocale della protagonista che si deve preoccupare delle difficli note da emettere, e il regista, irrispettoso, si impone verso la poveretta, non lasciandole lo spazio, il tempo, la tranquillità di emettere queste difficili note. Povere casse! Povere bare! Vediamo bene come vanno le cose, e vediamo se Michieletto rispetta o meno la drammaturgia! Siamo a quattro battute prima della cifra 11, pag.244 Ricordi. Batte mezzanotte. Amelia canta “Mezzanotte. Ah, che veggio”, scatta l’Allegro, cifra 11, “una testa, di sotterra, si leva e sospira, (indicazione “con spavento” ndr) “ha negli occhi il baleno dell’ira e m’affisa e m’affisa e terribile sta. (indicazione “con voce soffocata ndr) e m’affisa. E m’affisa…e terribile sta”. In pratica Amelia che è la moglie di un funzionario non una delinquente, di notte, in un postaccio pericoloso, sola, spaventata, ha un’allucinazione, o forse no. E l’allucinazione, o forse no, è una prostituta che l’aggredisce iraconda, è una donnaccia, ciò che lei in questo momento si sente e TEME di essere. Drammaturgicamente e psicologicamente è una soluzione perfetta. Fa vedere a noi del pubblico ciò che accade nell’immaginazione sovreccitata di Amelia, o forse ciò che accade realmente. Non è importante: la “testa di sotterra” interviene protagonista nell’azione, così come suggerito dal libretto e dalla concitazione orchestrale su cui Verdi prevede addirittura il cambio di tempo e il rafforzamento con terzine di trombe e corni in fortissimo mentre il timpano rulla terrifico. Inoltre, a parte il fatto che la rapina Michieletto non l’ha prevista violenta (Amelia quasi si lascia sfilare la pelliccia) il momento per il soprano è scevro di difficoltà, che non sia il dramma. Canta semicrome di La3, si bemolle4 e Do4 fino al Si naturale4 dell’ultimo “ah”, quando la rapina è già consumata da qualche battuta. Il difficile per il soprano arriva subito dopo con la frase “Deh mi reggi m’aita signor”, con quel che segue, che deve legare e alla parola “cor” arriva al Do5 e alla parola “signor” fa il salto di un’ ottava dal Fa4 naturale sulla sillaba “si” al Fa3 naturale su “gnor” per poi proseguire col resto della difficile frase. E infatti Michieletto *del tutto rispettoso delle esigenze del canto* lascia la cantante in pace, da sola e concentrata e senza alcuna distrazione in scena.
Passiamo al secondo esempio. Finale dell’opera. Renato, pistola in pugno, affronta Riccardo: “E tu ricevi il mio”. Colpo di pistola. Riccardo cade, concitazione. Popolo e luci stringono sul cadavere che viene coperto..E sopresa..a “Ella è pura” il coro si allontana da dove si era stretto, Riccardo in piedi canta, e a terra giace il suo corpo ucciso. Apriti il secondo cielo! Le casse risuonano, la terra rimbomba, le ossa fischiano e scricchiolano: raccapriccio! Riccardo non è morto! Che vuol dire?? Arbitrio, arbitrio!! Ora cerchiamo di spiegare: nella scena precedente Riccardo scrive il salvacondotto, con felice intuizione ci fa osservare, registicamente, nella stanza accanto, Amelia che nello stesso istante scrive il biglietto che darà ad Oscar per metterlo sull’avviso. Amelia trova quindi il salvacondotto sul corpo di Riccardo morto e…lo legge…E leggendolo,è come se lo avesse accanto, vivo. Sul salvacondotto ci sono le parole di Riccardo “Ella è pura” con quel che segue, definitivo congedo all’amico Renato, estrema confessione. La voce di Riccardo e l’immagine di Riccardo vivo sono nella testa di Amelia, che legge il suo estremo saluto. Si tratta non solo di un grande momento teatrale, ma di un istante di pura commozione e dispiace molto, non a noi, che a coloro che non l’hanno capito, sia stato precluso.
Sulla scelta relativa all’ambientazione (epoca moderna, Riccardo governatore uscente in campagna elettorale per essere rieletto, Renato suo amico e responsabile dello staff e addetto alla sicurezza, Oscar segretaria, scenografia da convention americana) lascio la parola al sommo Budden: “Buona parte dei registi moderni non fanno alcun tentativo per giungere a cogliere il nodo centrale, il chiaroscuro della partitura e perdono invece il loro tempo con il problema secondario dell’ambientazione, per il quale non vi è alcuna soluzione logica….(omissis)…Un regista non può far altro che attenersi alle richieste basilari espresse da Verdi nelle sue lettere: un’alta società frivola e sofisticata, e un’età e un clima sotto il quale la gente poteva credere alla magia”. L’epoca ritratta da Michieletto rispetta tutte queste esigenze.
Pur dovendo, necessariamente e doverosamente, appuntare congruamente il dovuto spazio alla regia devo necessariamente tagliare, non senza ricordare che la scelta di ritrarre Ulrica come moderna imbonitrice è realistica ed efficace, oltre che rispettosissima. A costo di essere tacciato di pedanteria ricito a proposito il Budden. “Ulrica è veramente posseduta, o è solamente una brava psicologa? Il testo originale di Scribe allude fortemente alla seconda ipotesi: quando Mme Arverdson (l’Ulrica di Scribe, da cui è tratto il dramma di Somma/Verdi ndr) vede giungere Amelia travestita, fa alcune rapide deduzioni dall’aspetto della sua visitatrice prima che il consulto inizi. Questa è la tecnica dell’indovino alla fiera di paese quando ha la fortuna di incontrare il cliente suggestionabile…(….omissis…)…Possiamo dare la seguente interpretazione del suo comportamento: l’invocazione iniziale è imbroglio ciarlatano; il senso di autentico orrore che promana dalla musica deriva unicamente dalla credulità degli astanti; giunge Silvano, piace ad Ulrica, la quale gli offre pertanto una profezia favorevole, tuttavia difficilmente realizzabile senza l’aiuto fortuito di Riccardo. Ulrica nulla sa dell’identità di Riccardo e dei suoi amici; ma questi la offendono e lei decide di vendicarsi gettandoli in un grosso spavento: notando il maggiore allarme di Samuel e Tom, comprende di aver colpito molto più vicino al segno di quanto potesse aspettarsi, e astutamente aumenta il suo vantaggio con la profezia della stretta di mano. Ma una volta avuta la prova della generosità di Riccardo, gli fornisce un *autentico* avvertimento, basato su ciò che ha osservato nel corso del quintetto. Se Ulrica fosse una vera maga, con totale fiducia nei suoi vaticini, perchè mai dovrebbe avvertire Riccardo che qualcuno del suo seguito sta per tradirlo? Non sarebbe servito a nulla perchè Riccardo era condannato in ogni caso (…omissis…) In merito al consiglio dato ad Amelia non c’è bisogno di alcuna spiegazione particolare particolare. Se Ulrica E’ una buona psicologa deve sapere che il rimedio per Amelia può venire solo da lei stessa (….) Ora, facendola andare nell’ultimo posto in cui una signora di buona famiglia, e moglie di un importante funzionario statale, oserebbe mettere piede, Ulrica sta sottoponendo a un test la sua forza di volontà”. Ecco in queste righe, non mie, ripeto, ma di Julian Budden il perchè del motivo per cui regia di Michieletto sia rispettosissima di Verdi e delle sue intenzioni, pur ambientandola in un contesto desueto. Così come era desueto e antistorico quello di Zeffirelli di creare una Versailles a casa degli impiccatori di Salem.
Tanto era dovuto alle ossa fischianti, e mi scuso della logorrea scritta. Ora è tempo di passare alla parte musicale. Ossia all’opera propriamente detta. Era difficile per me accostarmi al capolavoro verdiano appena poche settimane dopo averne ascoltato un’interpretazione di riferimento a Roma con l’Orchestra di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano. Naturalmente il confronto è impietoso per il giovane e un po’ acerbo direttore Daniele Rustioni. Non tanto per le occasionali “perdite di contatto” tecniche con il palcoscenico, e soprattutto con le scene corali “Teco sarem di subito” (finale primo quadro) o la scena del ballo. Ho ascoltato fior di direttori essere fuori tempo con la banda fuori scena nel III atto, compreso il Muti dell’ultima ripresa ad una replica avanzata, la quinta o la sesta del 2001. E nemmeno Pappano, con il vantaggio di un’esecuzione da concerto, è rimasto immune da sfasamenti nella scena suddetta. Il punto non è tanto quello. E’ piuttosto una sorta di rigidità di fondo rispetto alla scelta dei tempi, una certa immutabilità della scansione che, una volta decisa, diventa regolare e vagamente metronomica. Una certa qual mancanza di svagatezza, di frivolezza, di brillantezza, che sono aggettivi presenti in continuità nelle indicazioni di Verdi in partitura che ho faticato a vedere realizzate dal braccio di Rustioni, a volte troppo preoccupato dell’insieme. Può forse aver nuociuto un numero non sufficiente di prove o un mancato utilizzo proficuo del tempo di prova a disposizione. “Ogni cura di doni al diletto” deve essere spumeggiante come champagne, non necessariamente veloce. Verdi prescrive un metronomo 126 alla breve in tempo “Allegro brillante e Presto” che non è velocissimo, ma dispone uno staccato leggerissimo che evidenzia l’atmosfera fatua, dello scherzo, del vitalismo a rotta di collo di Riccardo sempre borderline sull’abisso e a correre i massimi rischi. E qui Rustioni manca l’appuntamento. Altre volte, viceversa, si fa trovare puntuale. Gli accordi asciutti e violenti con cui si apre la scena successiva, ad esempio. La scena corale con cui si chiude l’atto, questa sì ben tenuta tecnicamente, compatta e tesa. Altre volte, nei concertati soprattutto, c’è un surplus di preoccupazione tecnica a scapito tutto del carattere. “E’ scherzo od è follia” e il quintetto del III atto in un paio di momenti sono a un passo dallo sfuggirgli di mano, della scena del Ballo si è detto. Ma il “Cor si grande è generoso” è realizzato benissimo con i luccichii dell’arpa che paiono veramente accompagnare lo spirito del governatore come lieve carezza dorata in un terso aldilà. E’ uno dei troppo rari momenti in cui Rustioni abbandona la rigidità a vantaggio di una ricerca sul colore (un altro si ha nel Finale II “Veh se di notte”) che lo rivelerebbe ben altrimenti vario e suadente. Una direzione, tutto sommato, a parere di chi scrive, avvenuta troppo presto, ma un direttore sostanzialmente da tenere d’occhio. Detta fuori dai denti:magari non un Harding, ma un direttore vero, non un bluff alla Battistoni o, peggio, gravitante nel mondo dei Montanaro-Fogliani.
Passiamo al cast. Disomogeneo alquanto per virtù complessiva, non dei singoli componenti. La disomogeneità è data dalla obbiettivamente difficile comprensione dettata dall’affiancamento di una Sondra Rodvanovsky ad un Marcelo Alvarez. La prima che ha il problema di controllare una voce che definire torrenziale è poco, sì che pare miracoloso ogni pianissimo che riesca ad ottenere. Il secondo che, forse, ha il problema opposto, ovvero evitare di “spingere” per ottenere volume. Sì che un duetto fra loro pare come un duetto tra il “Little David” da 914 mm (la Rodvanovsky) e la “P38” da 19mm. Tutti è due si sentono, per carità. Ma i pesi sono diversi. Detto questo il capolavoro realizzativo di Alvarez è sotto certi aspetti unico. Dissestato tecnicamente, ogni acuto ghermito di forza dato che “spinge” da una vita, voce suddivisa in tronchi. Ma che timbro! Che fraseggio! Che senso della parola! L’unico che sa dare un senso ai pp, ai ppp, alla fatuità e alla leggera gioiosità del personaggio. Un Riccardo intriso di poesia sfuggente. Spesso si parla di Oscar come emanazione, specchio di Riccardo. Ecco, in questo caso, in questo Riccardo forse è vero il contrario. Un Oscar cresciuto, un Cherubino destinato ad una vita troppo breve e consumata in un respiro. La Ballata “Di tu se fedele” è scrupolosissima nella realizzazione dei ppp (“dicendomi addio”…un soffio) del “morendo” (“tradir l’amor mio) e, francamente, a nessuno importa che il Do2 della discesa su “sfi-dar” sia afono quando il pp del “sollecita esplora divina gli eventi” è realizzato perfettamente, compreso lo staccato, proditorio e provocatorio, quase capriccioso per mettere alla prova la divinatrice. Questo è solo un esempio, ma Alvarez è ammirevole e paradigmatico di come nonostante una difficile condizione e stato vocale, francamente a cui non vedo rimedi, si possa creare (grazie all’intelligenza, al timbro e alla capacità comunque del cantante di “passare” sempre, di “galleggiare” e di non essere coperto), un personaggio credibile e soprattutto fedele alla poetica verdiana.
Diverso il caso del soprano Sondra Radvanovsky. Innanzi tutto non ritengo accettabile un canto espresso in una non-lingua, un “Sondrese” inarticolato in cui, per tutta l’opera, e credo sia un record, l’ascoltatore non colga una che sia una parola. Questi borborigmi non sono peraltro tenuti per sè, ma scagliati con la forza d’urto di un cannone per tutta la sala. In secondo luogo è pur vero che il ruolo di Amelia sia stato da sempre preferito da soprano di stampo drammatico piuttosto che lirico, questo per l’abbondanza nella parte della tessitura grave e centrale, ma l’emissione così brada e spesso incontrollata anche se effettivamente dal volume stupefacente è più consona ad una lavoratrice agricola ucraina che ad una moglie borghese, almeno come disegnata da Michieletto, di un funzionario statale. Ciononostante, nella sostanziale monotonia di un’emissione esasperata, Sondra Radvanovsky escogita un “Morrò ma prima in grazia” nel III atto suggestivo. In cui si sforza, riuscendoci inopinatamente, a cantare in pianissimo il “mai più non vedrà” e in tal modo restituendo appieno la commozione del momento. Ovviamente la Radvanovsky è efficacissima nei momenti concitati:ad esempio l’evocazione della visione nella scena all’orrido campo di cui si è già detto e nei concertati in cui, ovviamente, svetta senza alcuna fatica.
Renato, alla prima replica, è stato Gabriele Viviani che, se lo avesse avuto Pappano al posto del senescente Hvorostovsky, avremmo avuto la quadratura del cerchio. Senza cercare realizzazioni sofisticate ha contribuito con una resa solida della parte e, soprattutto, non ha mancato l’appuntamento con “le dolcezze perdute” dove, pur non essendo nobile ed evocativo come si potrebbe, ha ben reso il legato affettuoso del disegno musicale.
Patrizia Ciofi deve venire a patti anche con la parte di Oscar, ma ne abbiamo apprezzato il colore che, per una volta, non ha la grazia petulante di quasi tutti i cantanti del ruolo, ma, conformemente al personaggio creato da Michieletto (una segretaria) è stato più contiguo ad un’affettività apprensiva, piuttosto che a una gaiezza superficiale.
L’Ulrica della Cornetti ha tratteggiato con grande presenza vocale e scenica il suo ruolo di ciarlatana guaritrice.
Grandissimo successo e applausi.
Un saluto e, tutti insieme in coro “FIATO ALLE OSSA!!”
-MV
Qualche correzione:
– mi sono scappati un paio di Rodvanosky al posto di Radvanovsky;
– la discesa di “sfidar” nella Barcarola di Riccardo é sul Fa2, non Do2;
– nell’orrido campo, all’esempio citato, le note cantate da Amelia sono La3, sib3, e Do4, non La3, Sib4 e Do4.
– la convenzione che assumo é quella anglosassone Do3=do centrale, non quella pianistica Do4=Do centrale.
Questo perché sento giá scricchiolii di ossa…
A presto
-MV
Caro Anonimo ben informato, in Nietzsche (il cui nome si può benissimo italianizzare, non ci vedo nulla di male), specialmente nell’ultimo Nietzsche, cui appartiene la “Genealogia della morale”, non c’è traccia di antisemitismo, se per antisemitismo si intende il disprezzo per gli Ebrei considerati come una razza a parte ed inferiore. Era l’antisemitismo del tempo, incarnato esemplarmente dalla sorella del filosofo. Ma nel passo che lei cita gli ebrei sono considerati solo come la culla del cristianesimo, la religione dei deboli e degli impotenti, di coloro che si oppongono al bene incarnato dagli aristocratici che dicono sì alla vita. Di antisemitismo ottocentesco, che Nietzsche ha sempre considerato con sommo disprezzo, in questo passo non c’è niente.
Marco Ninci
Credo non ci sia molto da aggiungere ai precedenti interventi. La dettagliata Tristano-story unita al formidabile intervento di Vono, dà idea dello stato di MORTE della critica ,musicale così come la pratica la nota penna del noto, quanto decaduto quotidiano milanese, lontanissimo da un concetto di servizio destinato ad un pubblico e ormai prigioniero di un suo mondo di giochi delle parti. Grazie all’anonimo ben informato, davvero illuminante su una situazione peraltro facilmente intuibile da una regolare lettura dei “partI” del noto Tristano.
Condividendo praticamente in toto l’intervento di Vono non mi sento di aggiungere alcunché a quanto da lui puntualmente descritto, ovvero Un Ballo in Maschera così come è andato in scena, musica e regia, alla Scala. Ma riprendo ed enfatizzo un aspetto: lo spettacolo firmato da Damiano Michieletto è quello di un artista che ama e conosce l’opera e la musica, ama e conosce Verdi. Non c’è, in tutto l’allestimento di Michieletto, un solo nanosecondo che non sia tutto NELLA MUSICA e NEL DRAMMA. E tutto la scena di Ulrica, a partire dai rabbrividenti “coni di luce” che si accendono sui personaggi in corrispondenza con gli accordi iniziali è, credo, è l’idea e la realizzazione perfettamente compiuta di un genio della messa in scena. E di un uomo che “legge” nelle partiture e nei libretti e li porta al massimo grado di vita scenica. Idem lo sdoppiamento finale di Riccardo, benissimo spiegato da Vono (e il termine “commovente” restituisce perfettamente l’emozione del momento). Le puttane in scena non sono uno scandalo, ma diventano la perfetta realizzazione scenica – fra paradosso, umorismo e tragedia – questo è il Ballo! – di quanto Amelia, Riccardo e Renato si trovano a vivere. Tant’è vero che, dopo quel secondo atto, assume un evidenza impressionante di sentimento e dramma l’ “Eri tu” di Renato. Infiniti sarebbero i momenti da citare (uno: il bambino che gioca con i palloncini della festa mentre attorno a lui prende corpo la tragedia). E la straordinaria realizzazione di parola e scena del Riccardo di Marcelo Alvarez è l’esito di un magnifico lavoro attuato dal regista sul cantante: Michieletto ha “cucito” QUEL Riccardo, un po’ guascone un po’ kennedyano, su caratteristiche interpretative proprie del cantante con cui si è trovato a collaborare: Alvarez ha assunto in toto il personaggio, con evidente convinzione, e vi si è come “specchiato” restituendolo con splendida evidenza scenica. Idem l’Ulrica della Cornetti: èperfettamente cucita sull’interprete dal regista. Ma, fra pregi e limiti di ciascuno, questo vale per ciascun personaggio. Di Rustioni condivido alla lettera, nel bene e in qualche limite, quanto scritto da Vono e nulla ho da aggiungere. In un allestimento di così plastica evidenza scenica, letteralmente formidabile, nella scolpitura della parola, mi è parsa la prova del coro della Scala.
Concludendo: fra spettacolo a mio avviso memorabile e una parte musicale fra alti e bassi ma di creativa dedizione, questo è Un Ballo che “ha sangue”, ha vita, palpita. Non tutto perfetto, ma palpitante di teatro in musica. Profondamente “verdiano” nell’anima che Damiano Michieletto ha saputo infondervi.
Scandaloso non è il suo sèettacolo, lo sono, semmai, gli scritti al riguardo dei ciechi e sordi (e tenddenziosi) tristani nonché salme: ossa di morto che scricchiolano.
marco vizzardelli
Ecco Ninci che udito il Nome si desta di soprassalto, Previsto. A parte questo, a quanto sopra scritto vorrei aggiungere che Daniele Rustioni non è il ragazzetto presuntuoso (ma roba da matti, cosa è, critica musicale?) definito tale da Tristano, bensì un giovane talentuoso direttore con aspetti ovviamente da maturare, presente a se stesso e a ciò che sta facendo, normalissima e tranquilla persona fellicemente dotata di una compagna di vita pure felicemente attiva in musica, Questo per dire che usando lo stesso metodo del denigratore (che usa, pagato si badi, il giornale sul quale scrive per sfogare se stesso) sarebbe facilissimo definire, gratis, il Tristano un (attempato, complessato) ricchione: informazione voluttuosamente diffusa dal Tristano su se stesso; ma a chi interessa, chissenefrega. Se si è pagati da un giornale d’un certo nome, questo tipo di informazioni non è, in alcun modo, servizio destinato ad un pubblico, Né tanto meno critica musicale
marco vizzardelli
Sempre perché le ossa sono sveglie. Nel mio intervento sul Ballo sono rimasti alcuni errori (un credo di troppo e sbagli di battitura) auspico possibilità d’uso di correttore su La Voce
marco vizzardelli
Scusa, Marco, lascia perdere. Non fai una bella figura. Connettere una precisazione su Nietzsche, un autore che amo moltissimo e che è sempre stato lontanissimo dall’antisemitismo, a Riccardo Muti è una cosa che non ha né capo né coda. Del suddetto, specialmente ora, non mi importa assolutamente niente, come non mi importa assolutamente niente di Paolo Isotta, che vedo con una certa pena essere in cima ai pensieri di molti. Del resto, non mi stupisco. Per te il fatto che io abbia evidenziato alcune criticità del comportamento di Abbado è equivalso a diffamarlo. Che si può dire? Nulla, assolutamente nulla. Ti si possono solo augurare tempi migliori.
Ciao
Marco Ninci
Vono e Vizzardelli hanno già ampiamente riferito del felice esito della seconda rappresentazione del Ballo in maschera con la regìa di Michieletto.
A me basta aggiungere che la trasposizione nel tempo dell’ambientazione dell’opera deve rispettare due fondamentali criteri: l’aderenza psicologica dei personaggi a quella tratteggiata dal libretto e soprattutto dalla musica e la coerenza con l’originale dei rapporti drammatuirgici tra i personaggi (coro compreso). Condizioni entrambe perfettamente rispettate da Michieletto con una eccezionale suggestione dell’ultima scena.
Se prima non si sono sentite molte emozioni, lo si deve piuttosto ai limiti dell’esecuzione musicale, che – come è stato già detto – non aveva né direttore né cast perfettamente all’altezza del compito.
Va poi detto che – con tutte le diverse location sopportate dal Ballo in maschera nella storia – questa tutto sommato rimane in America (prima trasposizione dall’originale alla corte di Svezia) e si riferisce alle vicende di un governatore e del suo staff, esattamente come nel libretto.
Rustioni mi pare essere ancora un po’ “apprendista direttore”, anche se è chiamato dappetrutto a dirigere opere per le quali si dimostra piuttosto acerbo. Tra gli eccessi fonici, gli scompensi nei tempi e la piattezza dell’accompagnamento in alcuni dei momenti più emozionanti dell’opera, ci sono stati anche passaggi pregevoli, ma il consiglio da dare al ragazzo è di rallentare gli impegni e di dedicarsi ancora un po’ allo studio, compreso quello dei suoi predecessori, non per scimmiottarli, ma per andare a fondo nello scandaglio espressivo della partitura. Orchestra quindi non molto motivata, anche se pure io ho notato la bellezza degli accompagnamenti dell’arpa, che – se la vista problematica non mi ha tradito – era Olga Mazzia.
Tra i cantanti, benissimo (finalmente) e nella parte la Cornetti, fuori parte il soprano, grande a tratti il tenore, ma con vistose crepe nella voce – come già è stato detto di Alvarez -, bene anche il giovane Viviani nella parte di Renato così come nella sua particina il Silvano di Arduini.
Quanto ad Oscar, inevitabilmente diventata in questo allestimento una giovane segretaria, io ho trovato fuori parte e piuttosto logora la voce della Ciofi, né mi convince su questo la spiegazione di Vono. Anche una ragazza di diciotto o vent’anni può essere un po’ petulante e infantilmente maliziosa come il paggio en travesti, rispettando il gusto ironico e divertito – vagamente scespiriano – con cui Verdi tratta svariati momenti dell’opera.
Nel complesso quindi un giudizio altamente positivo, come è stato per l’Oberto e il Nabucco, che tuttavia si avvalevano di cantanti e direttori più esperti e ben calati nelle rispettive parti, in regìe altrettanto valide di questa del Ballo.
.
Mi sono divertita tantissimo, ho trovato regia e messa in scena geniali! Voglio in ricordo la maglietta fucsia con scritto W Riccardo, e per dirlo io….
Musicalmente ho trovato delle pecche nel primo atto soprattutto ma poi nell’ultimo secondo me Rustioni ha trovato il giusto calibro e il finale mi è sembrato magnifico in tutto!
Insomma, temevo di essere delusa, visto che negli anni ’70 non me ne ero persa uno, ma devo dire che sono uscita felice. Attilia
Io invece voglio l’insegna al neon “Incorrotta Gloria” da mettere sulla balconata del Teatro…
Ciao!
-MV
Per Ninci e Vizzardelli traggo dall’intervista a Rustioni presente sul numero in edicola in questi giorni di “Classic Voice”.
Domanda: ” il suo direttore preferito in Verdi”
Risposta: “al primo posto Muti, al secondo Muti, al terzo Muti. Al quarto Pappano”.
Abbado non nominato.
Bontá sua.
-MV
Caro Max, io ho parlato di Nietzsche, che ancora determina il nostro modo di pensare. Un direttore d’orchestra invece, per quanto grande, in confronto a personalità di questo genere non significa nulla, assolutamente nulla.
Ciao
Marco Ninci
Non penso sia così. Se é vero che un filosofo determina il nostro modo di pensare é pur vero che un interprete musicale rende fruibile un’arte. Con qualche distinzione ritengo le due categorie accostabili.
Ciao!
-MV
Sull’anonimo ben informato vorrei dire due cose. E’ un analfabeta in due sensi. In primo luogo perché solo un analfabeta può perdere tutto quel tempo a interessarsi di Paolo Isotta. In secondo luogo perché interpreta Nietzsche in un modo che che non sta né in cielo né in terra e che qualsiasi studentello di filosofia, dopo dieci minuti di studio di Nietzsche, troverebbe ridicolo. Dall’interpretazione nazista di Nietzsche è passato un po’ di tempo, evidentemente invano per il nostro.
Marco Ninci
Quattro sfigati leccaculo di Michieletto : eccellente compagnia, non c’è che dire…
Tanto per restare dalle sue parti, gentile et, la sigla sta per “escremento tubolare”?
Eh eh, ecco Ninci che, a mezzo di Nietzsche, se la prende con l’anonimo che l’ha punto sul vivo. Tutto già visto (Ninci può stare in silenzio per mesi, ma appena si toccano certi temi, è vigile e pronto) compreso l’invito ad ignorare l’Isotta… Ignoriamo, ignoriamo lasciamo correre. Eh no!
Oggi sul Corriere viene, guarda caso, insultato dall’Isotta l’ottimo Fabio Luisi, colpevole – proprio come l’anonimo ci aveva ESATTAMENTE illustrato, di essere entrato in forze al Metropolitan – . Seguono amenità di genere vario fra cui una perla erotica, le corde di pianoforte che “si bagnano d’eccitazione” in quanto toccate da un pianista protetto dall’Isotta. Tutto questo non è ignorabile: è il parto inaccettabile di un quotidiano che finisce in mano a milioni di lettori.
L’anonimo è stato puntuale, esatto, direi quasi profetico: gli odierni insulti isottiani a Luisi – il nuovo nemico da combattere – sono la conferma di quanto il Ben Informato aveva scritto su questo blog. Per cui, non ignoriamo, anzi leggiamo per aver ben presente chi e cosa, da anni, è in moto sulle pagine del Corriere della Sera. Che tutto questo sia giornalismo, cioè un servizio reso alla musica ed ai lettori, non direi. E’ altro.
Mi viene una diabolica tentazione speranza: sarebbe gustosissimo che la Scala – in faccia al critico e al quotidiano milanese – scegliesse proprio Fabio Luisi a prossimo direttore stabile. Del resto ne ha ampiamente i titoli e ha già lavorato bene con l’orchestra, padroneggia sia il repertorio italiano che quello tedesco. E ha un grande merito: viene insultato dall’Isotta. L’esperienza insegna che questo avviene ai migliori direttori, registi, cantanti. E’ un onore e una nota di merito ricevere gli insulti dell’Isotta. Tanto, la figuraccia la fa il giornale che glieli pubblica.
marco vizzardelli
La cosa più imbarazzante e anche, da un certo punto di vista, sconvolgente è che REALMENTE un Isotta o un Anonimo possano pensare che il Corriere della Sera abbia non solo la capacità ma finanche la possibilità di INFLUENZARE la pubblica opinione, la classe dirigente, i responsabili istituzionali di New York e del Met nella nomina di un direttore musicale.
Come se io mi mettessi in testa da questo blog di influenzare la nomina del direttore artistico del Festival di Salisburgo.
A New York c’è un certo New York Times, non so se mi spiego. New York è la capitale finanziaria del MONDO, non so se mi spiego. Sta negli Stati Uniti d’Anerica. E il Met non è il Festival di Martina Franca.
Dai, Marco, lasciamo perdere Isotta, Muti, Abbado, Pappano, Luisi e tutto l’ambaradan melomane, oramai marcio. Vediamoci a settembre da Beny. Sai che ieri sera sono stato sulla montagna pistoiese (Il Castello di Selvaggia, a Sambuca Pistoiese), dove ho scoperto un ristorante di cucina regionale assolutamente meravigioso? Dei maccheroni al sugo di anatra senza confronti (e sì che il sugo di anatra l’ho assaggiato in innumerevoli versioni), una tagliata morbidissima, cotta mirabilmente al sangue (non voglio nemmeno pensare che tu la desideri ben cotta, sarebbe un affronto terribile, altro che Isotta), una crostata di marmellata di fragole da sogno. E un antipasto, strabiliante, di involtini di prosciutto locale con rucola e formaggio fuso. In due quaranticinque euro, non so se mi spiego. Dai, andiamo. E però. Va bene parlare male di Isotta, ma di quegli altri che si chiamano Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Francesco Giavazzi, Alberto Alesina non diciamo proprio niente? E, comunque, dire di Nietzsche che era antisemita, dirlo di lui che ha combattuto una vita intera l’antisemitismo, è per me un’offesa terribile. Va da sé che la citazione da parte di Isotta non aveva né capo né coda ed era offensiva anche lei. Ma non si potrebbe stare zitti e non usare personalità di quel livello per litigi da cortile?
Matco Ninci
Anch’io ho trangugiato ieri mattina l’emetico propinatoci ormai con cadenza bi- o trisettimanale dal Corriere della Sera. Per fortuna non ho vomitato addosso agli altri passeggeri della metropolitana, ma intendo evitare che il pericolo si ripeta.
In un certo senso dò ragione sul punto a Marco Ninci: entrare nel merito di quello che scrive uno che non merita di essere chiamato Tristano – caso mai il suo rovescio – non vale più la pena. Dico questo solo a protezione del mio stomaco, sia ben chiaro.
Penso come Marco Viz che il Presidente della Scala, Pisapia, Lissner e Pereira dovrebbero prendere in seria considerazione, oltre alle scuse della città, un ritorno di Fabio Luisi alla Scala, magari non come direttore stabile, ma almeno per un’opera che alla Scala da troppo tempo non si fa in modo decente: il Freischutz, di cui Luisi ha dimostrato di essere eccellente interprete alla guida di grandi complessi germanici.
Anche Omar Meir Wellber avrebbe diritto a pubbliche scuse, ma a lui consiglio di girare al largo il più possibile dalla Scala, fino a quando sarà stato acclamato (sempre che lo acclamino, ma io prevedo di sì) dal pubblico e dalla critica dei maggiori teatri del mondo.
Mi pare che persino Barenboim andrebbe risarcito delle contumelie ricevute, magari con un Ambrogino d’oro al termine del suo mandato di direttore musicale della Scala.
Ma veniamo al dunque. Il problema più grave del Corriere non mi pare più Isotta, ma il direttore Ferruccio De Bortoli, il quale nella squallida vicenda che si trascina voltolandosi nel fango (o peggio) ha dimostrato a mio avviso una totale inadeguatezza, per non dire inettitudine, rispetto al ruolo che ricopre. A lui io ho smesso di scrivere, così come smetterò di leggere Isotta. Tutto sommato, se è vero che nei piani di Elkann e Marchionne c’è quello di mettere insieme La Stampa e il Corriere, se ci fosse Calabresi direttore e tornasse Mattioli a capo della critica musicale, capisco i giornalisti che strillerebbero come aquile, ma almeno il bubbone della critica musicale del Corriere sarebbe sicuramente estirpato.
Gabriele Baccalini.
Un bubbone piccoletto di statura ma colossale nelle scempiaggini
marco vizzardelli
ABBADO-LUCERNA 2013
Non ho assistito (non tutto si può fare) al concerto Schubert-Bruckner e mi spiace perché i due programmi edi quest’anno rano evidentemente legati sul piano tematico e interpretativo. Ma c’ero la sera del 17 agosto, alla replica del concerto inaugurale, ed è stato memorabile. Mi preme sottolineare un aspetto: la continua rilettura, l’ininterrotto studio di Claudio Abbado su lavori anche già eseguiti. Prendete l’Eroica, e riandate al fantastico ciclo Beethoven di Roma e Vienna, subito dopo la malattia. Abbado fu il “campione” di un Beethoven asciutto, svelto, nervoso, giustamente memore della filologia innestata però su uno “slancio ideale” rispondente alla grande tradizione (ai tempi, citò giustamente Furtwangler da un lato, Harnoncourt da un altro). Da quel momento, ecco innumerevoli esecuzioni iper-nervose, iper-secche, iper-minimal di Beethoven. Ma Abbado non si ferma: rilegge, ristudia, reinterpreta. Già a Lucerna, poco dopo l’esperienza Roma-Vienna, c’era stata una incredibile Nona di Beethoven riletta come una “missa solemnis” laica (neanche tanto laica, anzi, spirittualissima). L’Eroica 2013 di Abbado a Lucerna è stata consimile: di Roma o di Vienna con i Berliner di allora restano l’articolazione delle frasi o certi rilievi “solistici” della concertazione (oboe, clarinetto con i memorabili solisti dell’orchestra di Lucerna, peraltro perfettamente fusi in “orchestra”, non fini a se stessi). Ma questa Eroica firmata da Abbado è tutt’altra cosa, da allora: dilatata nei tempi ma con una sbalorditiva capacità di sostenerli, tecnicamente ed emotivamente. E colma di un “affetto” e di un pathos che raramente si associano all’Eroica. Si sentono nella (incredibile) lettura della Marcia Funebre, ma si ritrovano ovunque: il tema del primo movimento enunciato alla fine dai corni. Il Trio dello scherzo (ancora i corni, mai ascoltato così: la frase viene presa “in dolcezza” e poi espansa in volume, come decollasse, nell’aria, ma conun senso di gioco e di struggimento). E gioco, affetto e struggimento sono il “segno” di tutto il finale.
Ma tutto il concerto è vissuto nel segno della “rilettura”. Quant’è lontano il Brahms giovanile, quasi “cubista” di Abbado, da questa “rotonda”, meditata, Ouverture iper-Tragica! E, nell’opulenza vocale del mezzosoprano Fujimura (una canna d’organo!), quanto pathos nel Waldtaube-lied di Schoenberg rispetto ad altre, pur favolose letture, già date in passato da Abbado. Ecco, “pathos” e “affetti” sembrano due “temi interpretativi” dell’attuale far musica di Claudio Abbado. Ma, attenzione! Con lui – a 80 anni – il giorno dopo è sempre, musicalmente, un giorno nuovo. Ed è ciò che, massimamente, lo rende uno stupefacente musicista.
marco vizzardelli
ABBADO-LUCERNA 2013
Non ho assistito (non tutto si può fare) al concerto Schubert-Bruckner e mi spiace perché i due programmi di quest’anno erano evidentemente legati sul piano tematico e interpretativo. Ma c’ero la sera del 17 agosto, alla replica del concerto inaugurale, ed è stato memorabile. Mi preme sottolineare un aspetto: la continua rilettura, l’ininterrotto studio di Claudio Abbado su lavori anche già eseguiti. Prendete l’Eroica, e riandate al fantastico ciclo Beethoven di Roma e Vienna, subito dopo la malattia. Abbado fu il “campione” di un Beethoven asciutto, svelto, nervoso, giustamente memore della filologia innestata però su uno “slancio ideale” rispondente alla grande tradizione (ai tempi, citò giustamente Furtwangler da un lato, Harnoncourt da un altro). Da quel momento, ecco innumerevoli esecuzioni, di una moltitudine di direttori, iper-nervose, iper-secche, iper-minimal di Beethoven. Ma Abbado non si ferma: rilegge, ristudia, reinterpreta. Già a Lucerna, poco dopo l’esperienza Roma-Vienna, c’era stata una incredibile Nona di Beethoven riletta come una “missa solemnis” laica (neanche tanto laica, anzi, spiritualissima). L’Eroica 2013 di Abbado a Lucerna è stata consimile: di Roma o di Vienna con i Berliner di allora restano l’articolazione delle frasi o certi rilievi “solistici” della concertazione (oboe, clarinetto con i memorabili solisti dell’orchestra di Lucerna, peraltro perfettamente fusi in “orchestra”, non fini a se stessi). Ma questa Eroica firmata da Abbado è tutt’altra cosa, da allora: dilatata nei tempi ma con una sbalorditiva capacità di sostenerli, tecnicamente ed emotivamente. E colma di un “affetto” e di un pathos che raramente si associano all’Eroica. Si sentono nella (incredibile) lettura della Marcia Funebre, ma si ritrovano ovunque: il tema del primo movimento enunciato alla fine dai corni. Il Trio dello scherzo (ancora i corni, mai ascoltato così: la frase viene presa “in dolcezza” e poi espansa in volume, come decollasse, nell’aria, ma con un senso di gioco e di struggimento). E gioco, affetto e struggimento sono il “segno” di tutto il finale.
Ma tutto il concerto è vissuto nel segno della “rilettura”. Quant’è lontano il Brahms giovanile, quasi “cubista” di Abbado, da questa “rotonda”, meditata, Ouverture iper-Tragica! E, nell’opulenza vocale del mezzosoprano Fujimura (una canna d’organo!), quanto pathos nel Waldtaube-lied di Schoenberg rispetto ad altre, pur favolose letture, già date in passato da Abbado. Ecco, “pathos” e “affetti” sembrano due “temi interpretativi” dell’attuale far musica di Claudio Abbado. Ma, attenzione! Con lui – a 80 anni – il giorno dopo è sempre, musicalmente, un giorno nuovo. Ed è ciò che, massimamente, lo rende uno stupefacente musicista.
marco vizzardelli
Claudio Abbado è Senatore a vita
marco vizzardelli
Bella roba essere senatori!
Toscanini la rispedì al mittente quella nomina….
-MV
Io penso, invece, sia tanto lodevole (e scomodo) accettare oggi la nomina, a fronte del BECERUME dei prevedibilissimi commenti, quanto fu soggettivamente apprezzabile, da parte di un Toscanini, rifiutare. Le animalesche reazioni di battoni e baldracche prestati/e alla politica e a certa stampa con l’esito di ridurle a postriboli, rendono scomoda e lodevole l’accettazione da parte di Rubbia, Piano, Abbado, Cattaneo.
marco vizzardelli
Alla Scala per il Quartetto, ecco Daniele Gatti, l’europeo.
Mentre si moltiplicano le “voci” su un arrivo di Riccardo Chailly alla Scala ( va benissimo, ma, al proposito, almeno una domanda: quante opere ha diretto negli ultimi anni?), nel teatro milanese approda Daniele Gatti per il concerto dei 150 anni della Società del Quartetto. Ed è, dopo l’estate di Salisburgo e Lucerna, l’ennesima conferma del più “europeo” (in senso culturale) dei direttori italiani viventi fra quanti sono nati dopo Claudio Abbado.
Alla guida della estrosissima Mahler Chamber Orchestra (un po’ “stretta” nell’acustica sempre più sorda del teatrone milanese: a proposito, pensare ad una conchiglia o a qualche accorgimento, no?), Gatti apre il programma con una lettura dell’Idillio di Sigfrido di inusitata raffinatezza timbrica e strumentale. Il tempo è è lento ma non comodo, sempre sostenuto dalla grande tecnica, dal senso dei colori, da una carica emotiva che pare tracimare nella fase conclusiva in crescendo, prima della chiusa.
Matthias Goerne è poi finissimo interprete della raccolta di Ruckert-lieder di Mahler: molto più “in voce” rispetto a recenti apparizioni scaligere, il baritono, in coppia con Gatti, dà vita in particolare ad una lancinante interpretazione di Am Mitternacht, scura, introversa eppure memorabile nel lirismo.
Direttore dal passo lento? No, Gatti è un grandissimo – e imprevedibile, e mai scontato – interprete. Quando ci si aspetta, dopo la prima parte, un’Eroica di Beethoven meditativa, te la dà fremente, aguzza, in stupefacente sfruttamento delle dissonanze timbriche offerte dall’edizione già esaltata da Abbado a Roma. L’Eroica è la sinfonia delle tensioni contrapposte. E proprio questo è l’aspetto colto da Gatti nel fremente movimento iniziale, cui fa seguito – eseguita con straordinaria econimia di suono ma anche grandi “aperture” – una marcia funebre allucinata: ne è cuore la doppia fuga, ed è conclusa dal tema interrotto, per il quale Gatti chiede e ottiene un letterale filo di suono, quanto di più prossimo al silenzio si possa immaginare. Poi, com’è giusto, la sinfonia si apre al gioco: lo scherzo, all’inizio quasi “puntinista” nell’enunciazione degli archi, vede la fantastica sortita dei corni (in apertura progressiva di suono, come con Abbado a Lucerna, ma qui più teso). Il finale è di un virtuosismo tanto inmtelligente quanto scatenato. Grandissima lettura di un interprete italiano ormai “musicalmente” proiettato in Europa, fantasia e suono italiano uniti a profondità, studio continuo, ininterrotta maturazione interpretativa e una attuale, evidente felicità e libertà di far musica. Da un lato, ci si chiede come la Scala possa non “eleggere” questo direttore. Dall’altro – per chi lo apprezza – vien da sperare che resti libero, pur collaborando, da un teatro che, nella difficoltà e nelle angustie dell’ambiente (vedi anche le ultime polemiche sulla trasferta in Giappone, vedi il “mestar nel torbido” del Corriere della Sera, vedi… l’ambientino in generale, alquanto provinciale), non è forse la sede più conveniente ad un musicista di tale apertura culturale. In ogni caso, abbiamo ascoltato un grandissimo Gatti.
marco vizzardelli
Alla Scala per il Quartetto, ecco Daniele Gatti, l’europeo.
Mentre si moltiplicano le “voci” su un arrivo di Riccardo Chailly alla Scala ( va benissimo, ma risulta aver rinnovato per anni con Lipsia e, al proposito, almeno una domanda: quante opere ha diretto negli ultimi anni?), nel teatro milanese approda Daniele Gatti per il concerto dei 150 anni della Società del Quartetto. Ed è, dopo l’estate di Salisburgo e Lucerna, l’ennesima conferma del più “europeo” (in senso culturale) dei direttori italiani viventi fra quanti sono nati dopo Claudio Abbado.
Alla guida della estrosissima Mahler Chamber Orchestra (un po’ “stretta” nell’acustica sempre più sorda del teatrone milanese: a proposito, pensare ad una conchiglia o a qualche accorgimento, no?), Gatti apre il programma con una lettura dell’Idillio di Sigfrido di inusitata raffinatezza timbrica e strumentale. Il tempo è è lento ma non comodo, sempre sostenuto dalla grande tecnica, dal senso dei colori, da una carica emotiva che pare tracimare nella fase conclusiva in crescendo, prima della chiusa.
Matthias Goerne è poi finissimo interprete della raccolta di Ruckert-lieder di Mahler: molto più “in voce” rispetto a recenti apparizioni scaligere, il baritono, in coppia con Gatti, dà vita in particolare ad una lancinante interpretazione di Am Mitternacht, scura, introversa eppure memorabile nel lirismo.
Direttore dal passo lento? No, Gatti è un grandissimo – e imprevedibile, e mai scontato – interprete. Quando ci si aspetta, dopo la prima parte, un’Eroica di Beethoven meditativa, te la dà fremente, aguzza, in stupefacente sfruttamento delle dissonanze timbriche offerte dall’edizione già esaltata da Abbado a Roma. L’Eroica è la sinfonia delle tensioni contrapposte. E proprio questo è l’aspetto colto da Gatti nel fremente movimento iniziale, cui fa seguito – eseguita con straordinaria economia di suono ma anche grandi “aperture” – una marcia funebre allucinata: ne è cuore la doppia fuga, ed è conclusa dal tema interrotto, per il quale Gatti chiede e ottiene un letterale filo di suono, quanto di più prossimo al silenzio si possa immaginare. Poi, com’è giusto, la sinfonia si apre al gioco: lo scherzo, all’inizio quasi “puntinista” nell’enunciazione degli archi, vede la fantastica sortita dei corni (in apertura progressiva di suono, come con Abbado a Lucerna, ma qui più teso). Il finale è di un virtuosismo tanto inmtelligente quanto scatenato. Grandissima lettura di un interprete italiano ormai “musicalmente” proiettato in Europa, fantasia e suono italiano uniti a profondità, studio continuo, ininterrotta maturazione interpretativa e una attuale, evidente felicità e libertà di far musica. Da un lato, ci si chiede come la Scala possa non “eleggere” questo direttore. Dall’altro – per chi lo apprezza – vien da sperare che resti libero, pur collaborando, da un teatro che, nella difficoltà e nelle angustie dell’ambiente (vedi anche le ultime polemiche sulla trasferta in Giappone, vedi il “mestar nel torbido” del Corriere della Sera, vedi… l’ambientino in generale, alquanto provinciale), non è forse la sede più conveniente ad un musicista di tale apertura culturale. In ogni caso, abbiamo ascoltato un grandissimo Gatti.
marco vizzardelli
Alla Scala per il Quartetto, ecco Daniele Gatti, l’europeo.
Mentre si moltiplicano le “voci” su un arrivo di Riccardo Chailly alla Scala ( va benissimo, ma risulta aver rinnovato per anni con Lipsia e, al proposito, almeno una domanda: quante opere ha diretto negli ultimi anni?), nel teatro milanese approda Daniele Gatti per il concerto dei 150 anni della Società del Quartetto. Ed è, dopo l’estate di Salisburgo e Lucerna, l’ennesima conferma del più “europeo” (in senso culturale) dei direttori italiani viventi fra quanti sono nati dopo Claudio Abbado.
Alla guida della estrosissima Mahler Chamber Orchestra (un po’ “stretta” nell’acustica sempre più sorda del teatrone milanese: a proposito, pensare ad una conchiglia o a qualche accorgimento, no?), Gatti apre il programma con una lettura dell’Idillio di Sigfrido di inusitata raffinatezza timbrica e strumentale. Il tempo è è lento ma non comodo, sempre sostenuto dalla grande tecnica, dal senso dei colori, da una carica emotiva che pare tracimare nella fase conclusiva in crescendo, prima della chiusa.
Matthias Goerne è poi finissimo interprete della raccolta di Ruckert-lieder di Mahler: molto più “in voce” rispetto a recenti apparizioni scaligere, il baritono, in coppia con Gatti, dà vita in particolare ad una lancinante interpretazione di Um Mitternacht, scura, introversa eppure memorabile nel lirismo.
Direttore dal passo lento? No, Gatti è un grandissimo – e imprevedibile, e mai scontato – interprete. Quando ci si aspetta, dopo la prima parte, un’Eroica di Beethoven meditativa, te la dà fremente, aguzza, in stupefacente sfruttamento delle dissonanze timbriche offerte dall’edizione già esaltata da Abbado a Roma. L’Eroica è la sinfonia delle tensioni contrapposte. E proprio questo è l’aspetto colto da Gatti nel fremente movimento iniziale, cui fa seguito – eseguita con straordinaria economia di suono ma anche grandi “aperture” – una marcia funebre allucinata: ne è cuore la doppia fuga, ed è conclusa dal tema interrotto, per il quale Gatti chiede e ottiene un letterale filo di suono, quanto di più prossimo al silenzio si possa immaginare. Poi, com’è giusto, la sinfonia si apre al gioco: lo scherzo, all’inizio quasi “puntinista” nell’enunciazione degli archi, vede la fantastica sortita dei corni (in apertura progressiva di suono, come con Abbado a Lucerna, ma qui più teso). Il finale è di un virtuosismo tanto inmtelligente quanto scatenato. Grandissima lettura di un interprete italiano ormai “musicalmente” proiettato in Europa, fantasia e suono italiano uniti a profondità, studio continuo, ininterrotta maturazione interpretativa e una attuale, evidente felicità e libertà di far musica. Da un lato, ci si chiede come la Scala possa non “eleggere” questo direttore. Dall’altro – per chi lo apprezza – vien da sperare che resti libero, pur collaborando, da un teatro che, nella difficoltà e nelle angustie dell’ambiente (vedi anche le ultime polemiche sulla trasferta in Giappone, vedi il “mestar nel torbido” del Corriere della Sera, vedi… l’ambientino in generale, alquanto provinciale), non è forse la sede più conveniente ad un musicista di tale apertura culturale. In ogni caso, abbiamo ascoltato un grandissimo Gatti.
marco vizzardelli