Oberto conte di San Bonifacio
Giuseppe Verdi

Nuova produzione Teatro alla Scala
Dal 17 Aprile al 14 Maggio 2013
Durata spettacolo: 2 ore e 40 minuti incluso intervallo
Cantato in italiano con videolibretti in italiano, inglese
- Nell’anno del bicentenario non poteva mancare (insieme all’ultima opera, Falstaff) il dramma a personaggi con cui Giuseppe Verdi si presentò per la prima volta al pubblico. Il giovane di belle speranze – “straniero” del ducato di Parma traslocato a Milano – incassò a ventisei anni calorosi applausi. Così l’opera venne replicata alla Scala per quattordici sere e il musicista ebbe in tasca un contratto per scriverne altre tre.
Gli eroi del giovane Verdi piacquero subito – prima ai milanesi e poi agli italiani – perché rappresentavano quello che loro avrebbero voluto essere: coraggiosi anziché pavidi, integerrimi anziché opportunisti, diretti anziché reticenti. Prendiamo Oberto: ha una figlia sedotta e l’ha inizialmente ripudiata. Entrambi sono poi animati da vendetta contro il seduttore, che nel frattempo ha un’altra promessa. Padre e figlia la avvertono però dell’infída natura di costui, e quest’ultima (anziché ingaggiare una battaglia per tenere per sé l’uomo, come sarebbe realistico supporre) lo vuole obbligare a riparare i torti subiti dalla figlia di Oberto, sposando quest’ultima al suo posto. E via di seguito, a colpi di scena dettati da dirittura morale, esemplare orgoglio, generosità inattesa, nobile senso di colpa.
Mario Martone, l’apprezzato regista di Cavalleria rusticana e Pagliacci, ha già annunciato che lo spettacolo verrà guidato dall’idea del Risorgimento italiano.
Direzione
- Direttore Riccardo Frizza
- Regia Mario Martone
- Scene Sergio Tramonti
- Costumi Ursula Patzak
- Luci Marco Filibeck dal progetto di Pasquale Mari
CAST
- Riccardo Fabio Sartori
- Cuniza Sonia Ganassi
- Leonora Maria Agresta
- Oberto Michele Pertusi (17, 20, 23 apr.; 2, 5 mag.) Adrian Sampetrean (10, 14 mag.)
- Imelda José Maria Lo Monaco
Opera acerba di Verdi (del resto aveva solo 26 anni, alla sua prima opera), soprattutto nella prima parte; la seconda parte è decisamente migliore; il duetto fra Cuniza e Leonora ricorda molto quello celeberrimo di Norma e Adalgisa, davvero molto bello e nella fattispecie è stato cantato molto bene stasera.
Regia, scene e costumi non mi sono piaciuti per niente nella prima parte (avrei dovuto venire dopo l’intervallo!!!), mentre la seconda mi è sembrata più appropriata, con maggiore credibilità, data la trasposizione dal medioevo alle guerre di camorra dei nostri giorni. In ogni caso la messa in scena non mi è sembrata geniale, mi aspettavo qualcosa di meglio!
Molto brava, con una voce davvero bella, Maria Agresta; bene anche la Ganassi ma non è il suo personaggio (e neppure il suo ruolo vocale) ; bravo Michele Pertusi nella parte del protagonista, mentre Sartori ogni tanto deragliava, rinfrancandosi del tutto nella parte finale
Lascio lo spazio a Vizza che invece aveva un giudizio tutto positivo sulla prima di stasera.
Buona notte! Attilia
Auguro al Teatro alla Scala, che amo – come istituzione, in quanto tale – da appassionato non appartenente a massonerie né “ditte” musicali o civili alcune, di non cadere, nel suo prossimo futuro, in mire molto coltivate in certi ambienti milanesi. La recente esperienza fiorentina dovrebbe essere un deterrente più che sufficiente, ma non si sa mai. Va attualmente molto di moda, in tali ambienti, rovesciar palate di letame sull’attuale sovrintendente, dimenticandone CULTURA ad ampio raggio e meriti e aperture d’orizzonti, per sottolinearne solo i limiti. Dubito che taluni successori, certamente più provincialmente “localizzati” in cultura e spirito, saprebbero mandare in scena, alla Scala, uno spettacolo di forza progettuale complessiva pari a quella di questo Oberto Conte di San Bonifacio. Musica – vale ricordarlo – di Giuseppe Verdi: prodotto qui e ora.
L’opera ha un primo atto che pare – come si è sempre detto, di Oberto – il laboratorio di tutto il futuro verdiano, con uno sguardo rivolto indietro (belcanto, ma non è già più quello) e uno avanti (il coro che cita quasi alla lettera la prima festa di Traviata, e molto altro che dopo verrà: a iniziare da Macbeth, ma proseguendo molto oltre). Il secondo atto è pieno di meraviglie già a se stanti (almeno due: “Ciel pietoso ciel clemente” è forse la più bella aria di tenore verdiano precedente “Quando le sere”, etutto l’anti-finale, coro più Leonora, è da brivido, per non parlare di tutta la meravigliosa parte di Oberto, nella quale già si configurano tutte le successive meraviglie verdiane per voce bassa maschile). Ma, soprattutto, l’opera Oberto già racconta tutta la particolare sensibilità di drammaturgo musicale e l’altra sensibilità di Verdi, quella di italiano che sa cos’è l’Italia – coacervo di passioni, umori, religiosità, meschinerie e grandezze, miseria e gloria. E’ così anche oggi, in questi giorni, e alla Scala – che è luogo grandissimo quando sa, e l’ha sempre saputo fare, fra alti e bassi, cogliere in musica e teatro musicale, il momento e la vita del Paese Italia – tutto questo ha trovato riscontro nel compatto, unitario progetto scenico-musicale di cui si sono resi protagonisti Mario Martone in regia, Riccardo Frizza sul podio di un’orchestra finalmente tornata se stessa (cioé verdiana con luce e senza pesantezze: era ora!), e una magnifica (tutta! Ciascuno per quel che ha saputo offrire, ma, ciò che più conta, tutti coinvolti “unificati” nel progetto) compagnia di canto. Solisti… e coro: la straordinaria, subliminale umanità che si raduna nell’opulenta casa, e che alla fine esprimerà il dolore comune a tutti, ha un’evidenza scenica cui corrisponde quella ben nota, del coro di Casoni.
Oberto è Italia: sia Bassano oppure Sud, è – incredibile, Verdi, già fin d’allora – una terra nella quale l’amore – la capacità di esprimerlo, fino allo spasimo – si “sporca” d’una passionalità che trascina inevitabilmente al conflitto, personale, di parte, di cosca (partiti, massonerie…: è ancora la storia di oggi, in Italia, da Palermo a Roma a Milano… nei palazzi, nelle famiglie, nelle industrie, nelle mille associazioni italiane sempre una contro l’altra… e, sì, alla Scala!) . La villa opulenta – il rosso, l’oro , il nero, lo scalone, le colonne ioniche bordate d’oro, la statua opulenta d’oro, la cappella con l’immagine sacra, segno d’una fede autentica in parte, bigotta e segno “di potere” e di schiavitù allo stesso tempo si sposta e lascia spazio alla strada, che potrebbe essere splendida, con le piante, il verde – invece è degradata, brutta nell’asfalto, devastata nelle piante che crescono senza cura. E’ l’Italia, che Martone ci ha già mostrato, con amore e dolore, al cinema e alla Scala (Cavalleria e i Pagliacci, memorabili e giustamente qui citati nel ritorno dell’automobile, qui la Fiat 124 nera e impolverata che è il luogo del delitto: e cos’è accaduto, in un’automobile, in Italia? Quanti e quali uccisi al gioco delle parti e delle passioni sono stati trovati in un’automobile?). Questo Oberto prosegue il cammino, culturale ed umano, del regista Martone, e dell’uomo Martone che osserva e studia e vive – e propone – la Storia e l’anima del proprio Paese.
E’ Italia… ma è Verdi: raramente una messa in scena è stata così italiana e VERDIANA allo stesso tempo. Fin nella perfetta resa scenica della solidarietà femminile – tema portante dell’opera – fra Leonora e Cuniza. Il bacio al termine del duetto (favolose, lì, Agresta e Ganassi) non è un vezzo di regia, ma ferrea logica drammaturgica: non potrebbe che finir così. Ed è verdiano quanto lo sarà, anni dopo, l’amore (e che altro è?) fra Don Carlo e Rodrigo.
La storia di Oberto, quel libretto apparentemente assurdo ma quel dramma musicale già così verdiano nella sua implacabile efficacia ed esattezza, è già Italia alla ennesima potenza, così come la viviamo oggi. E quella Leonora in minigonna e stivaloni… è ancora sui giornali, tutti i giorni: vittima o magari assassina. Come lo è quella Cuniza sensuale, anche buzzurra, ma poi capace d’amare: quante donne, famose e di copertina oppure no, conosciamo anche oggi, sui media e nella vita? E quanti Riccardo dal buzzurrissimo abbigliamento da arricchito di dubbia provenienza? E quanti Oberto, dalla nobiltà di cuore ferita e uccisa dal gioco spaventoso delle parti e delle passioni? Guardate la foggia della Leonora di Martone e degli altri, poi domandatevi: cosa sono, secondo voi, Garlasco o Cogne, se non… vicende d’opera? Le vicende italiane che Verdi e l’opera ci hanno già raccontato? Che cos’hanno, di diverso, le miserie – e i grandi amori – dell’Italia di oggi, da quel che Verdi già raccontava, in musica e teatro?
Poche volte ci è accaduto di veder rappresentare Verdi – e l’Italia – con il carico d’amore e dolore, e di consapevolezza di un’identità nella quale bello e brutto, amore e delitto, si mischiano, e con la forza scenica di cui è stato capace Martone in questo allestimento. E poche volte, a nostro avviso, un allestimento è stato così – intimamente – verdiano nel midollo, nel “sentimento”, nell’anima. Altro che i fischi di chi non vuole o non sa vedere. E’ un’idea e una realizzazione memorabile di teatro verdiano e italiano. Colma di dolore, certamente (lo è l’opera e lo è l’allestimento), ma anche di vita.
E il progetto è complessivo, perché tutti vi hanno aderito. Riccardo Frizza – forte di una nota propensione a questo repertorio, che frequenta, ama e conosce – è quasi perfetto nei tempi (qualche frammento si sistemerà, crediamo, alle repliche): lo conoscevamo “frizzante”, lo è ancora ma con gli anni ha acquisito tutti i respiri giusti, le inflessioni, le articolazioni – canto e orchestra – di questo linguaggio. E’ professionale sempre, a tratti (second’atto: certe pause e scansioni teatralissime) è anche di più. Ha lasciato all’orchestra la fragranza verdiana eliminando scorie di pesantezza (un po’… teutonica, vogliamo dirlo, pur riconoscendo i meriti acquisiti in Wagner?) di tutta una vita recente, e ridandole luce (la splendida risposta di legni scaligeri, in particolare, ne è stato il segnale). E – che differenza, con il recente Macbeth – ha esaltato e aiutato, in esattezza, espressione ed anima, le voci. Bravissime, tutte e tutti, ciascuno portando del suo: Maria Agresta ha, letteralmente, la luce nella voce, e questo si sapeva. Ma – non l’ascoltavamo dai vespri di Torino – qui è stata non solo voce ma “anima” e personalità (memorabile, il finale) di Leonora. Ha uno strumento prezioso (da costruire con calma forse, nella “giovinezza” di certe note basse) e una personalità in crescita continua di consapevolezza. Le auguriamo, solo, di non dire troppi “sì” a tutti coloro che – ovviamente – oggi la cercano e la vogliono. Si è attribuito a tante – in anni recenti – il titolo e il ruolo di “nuova Freni”: Maria Agresta è titolata alla “parte: ricordi che la Freni è diventata, anno dopo anno e nel tempo, se stessa, anche dicendo alcuni sanissimi “no” (o “sì”, ma al momento giusto).
Michele Pertusi è il miracolo – perdurante da anni – di una nobiltà del porgere e di una morbidezza di canto che pare escludere lo sforzo. Il suo Oberto fiammeggia “dentro” restando come sorvegliato nell’espressione. C’è un paltò, il suo, anche in questo spettacolo, ma stavolta è perfettamente funzionale: e il momento – la dichiarazione di amore e guerra – in cui se lo leva e lo lancia, quasi diventando ardente e giovane, è memorabile. Dalla brace alla fiamma. Grande cantante e magnifico personaggio.
Sonia Ganassi ha “interpretato” Cunizza. La vocalità del personaggio, tendente più al basso che all’alto forse non risponde al 100% a quella della cantante, la impegna nei fiati e in qualche emissione. Ma la perizia dell’artista, l’aderenza totale al personaggio e alla regia, la “verità” di questa Cunizza vissuta nell’anima erano tali da rendere stucchevole e fuori luogo l’ormai scontata contestazione (peraltro sommersa dalle ovazioni) dei noti e noiosi soliti.
Fabio Sartori ha fatto annunciare indisposizione (tracheite), ma di fatto ha cantato molto bene (benissimo la splendida “Ciel Pietoso”, giustamente salutata da un lungo applauso). Martone e la costumista (la gloriosa Ursula Patzak: splendido lavoro!) ne hanno sfruttato la fisicità: è lui l’abitante eccessivo di quella casa eccessivo, luogo di cosca, di passione, di delitto.
Spettacolo da vivere, da discutere, da ripensare e rivivere “dopo”, nelle nostre strade, nei nostri ambienti poveri od opulenti, nella nostra vita e nelle nostre scelte di uomini e di italiani. Aggiungo che da qui – come da Pagliacci e da Cavalleria, e anni prima dal meraviglioso Così Fan Tutte – esco da teatro con il pensiero, fra i tanti, che Mario Martone sia un italiano di cui andar fieri. Pensiero vero e assolutamente non retorico.Verdi e il regista (che ha risposto con il garbo sorridente che lo connota a chi ha apprezzato e a chi no) ci raccontano molto, di noi stessi. E io all’uno e all’altro, dico grazie. E’ per questo che vado all’opera.
marco vizzardelli
Mi è scappato un paio di volte il nome Cuniza con due z. Tendo a memorizzarlo così
m.viz.
E ovviamente non è il coro di Oberto che cita la festa di Traviata, semmai il contrario: intendevo sottolineare la somiglianza.
marco vizzardelli
Qua bisogna ricondurre al suolo l’eclettico Vizzardelli che inavvertitamente ha creduto di imbarcarsi su uno Space Shuttle a rimirare il lato oscuro della Luna, mentre invece, più modestamente, era salito su una ruota panoramica di un Luna Park di periferia a rimirare sì la Luna, ma dal basso e nemmeno in una serata limpida.
Punto primo: Oberto. Lascio la parola a Budden, il più grande storico e analista divulgativo di tutte le opere di Verdi. “Come opera prima l’Oberto è un risultato interessante: ma non dobbiamo nemmeno esagerare. Verdi aveva allora ventisei anni, l’età in cui Mozart aveva scritto il Ratto, con Idomeneo già alle spalle: il primo rimasto in repertorio fin dalla prima sera, il secondo che comincia ad entrarci adesso. L’Oberto in NESSUN CASO (maiuscolo mio ndr) potrebbe insediarsi in un repertorio generale. (…omissis…) Se Verdi fosse morto dopo aver scritto Oberto oggi nessuno lo ricorderebbe, poichè nell’opera NON C’E’ NULLA DI QUELLA RISOLTA COMPIUTEZZA CHE SI PUO’ TROVARE NEI LAVORI DI GENII PIU’ GIOVANI (maiuscolo mio, ndr)” (J. Budden, Le Opere di Verdi, vol I, pag. 70).
In pratica, come lo stesso Budden in chiusura specifica, l’Oberto altro non è che l’inizio di un cammino. Che è interessante alla luce di quello che è seguito e quasi per nulla in sè. L’interesse di Oberto in sè è inferiore a quello di opere compiute di Mercadante.
Ora, Oberto è melodramma di maniera, sembra addirittura, alla luce di analisi anche recenti, derivata da un’opera abbandonata in precedenza (tale Rocester) con elementi da questa riciclati. La scrittura orchestrale è elementare, anche se talvolta balugina qualche originalità (“A quell’aspetto un fremito”) e certi salti armonici. Ma l’insieme è rossinismo e al meglio donizettismo.
Per questo, in maniera del tutto coerente, stimmatizzo la scelta di Frizza di aderire alla convenzione “bonyngeiana” che vuole ogni esecuzione del belcanto italiano imperniata su orchestra ridotta ai minimi termini, alleggerita, possibilmente con i “legni alti” (flauti e ottavini) che bucano il tessuto per dare sempre quella patina traslucida e levigata da accompagnamento edulcorato (ed educato). Il belcanto italiano va, orchestralmente, trattato come usava Schippers (la Lucia!), come usava Levine (il primo, indimenticabile James Levine della GIovanna d’Arco!). Se Oberto bisogna fare che si riempiano i leggii di Lambrusco, di ritmo, di sangue, di iperbole. Non di Idolitrina poco Frizz-ante.
Mi stupisce che Vizzardelli, da sempre ammiratore del Verdi “sanguigno” di cui sopra, si sdilinquisca per la sobrietà educata dell’ottimo (in senso tecnico) ma noioso (in senso teatrale) Frizza. Poi si potrà scrivere “non copre”, “è al servizio delle voci”, tempi “sereni e giusti”, ma per decine di minuti interi gli sbadigli erano in agguato.
Martone. Anche qui leggo dall’ottimo Vizzardelli un’inconsueta retorica da ufficio stampa “italiano da andare fieri”, “Oberto è Italia” ecc.ecc. Molto semplicemente per Martone Oberto è un conflitto tra due cosche mafiose ambientate a Bassano (dell’Etna). Martone ha il suo clichè (la Mafia, la Camorra), Chereau ha il suo clichè (il grigio-morgue, i paltò neri), Bob Wilson ha il suo clichè. Un’idea, quella del conflitto tra cosche, che funziona per Oberto e potrebbe funzionare per tante altre. Non vedo un’originalità di pensiero da farmi pensare di essere entrato nella Storia. Poi l’idea funziona, ci mancherebbe. Ma la REGIA? Regia vuol dire far muovere i personaggi. Costoro stanno statici per tre quarti dell’opera. Braccia avanti e braccia indietro. Parliamo pure degli stivali, dei camicioni, degli ori, delle madonne (ussignur, con ‘ste Madonne del sud. Zeffirelli riempiva già cinquant’anni fa il meridione musicale con le Madonne!). Ma la Regia? Non i costumi, la scenografia, l’idea…parlo della Regia..Dov’era? Semplice. Quelli che si possono definire ordinari movimenti teatrali dei protagonisti.
Poi, sulla compagnia di canto convengo completamente, ma non si tratta di Belcanto, l’Oberto. E se dietro, o meglio sotto, ho le bollicine, da sola non regge.
Ciao
-MV
Premetto che il Vono fu visto, tempo fa, cantare Va Pensiero all’Opera di Roma, sciogliendosi in commozione ed esaltando un Nabucco (dicasi Nabucco) finalmente oratorial-rossinian-mozartiano, bah. Il che fa pensare che le sue nozioni sull’esecuzione di opere della prima fase di Verdi siano variabili secondo l’umore il momento e la vena di bastian contrario. Peraltro, a parte tali stranezze, il Vono vive, non da sempre ma da qualche tempo e per una sorta di posa a colorito personaggio, una vena d’ascolto in base alla quale tutta l’opera italiana procede da un titolo: Andrea Chenier. Anzi: non solo l’opera italiana.Anche Wagner, o almeno il Wagner dell’Olandese Volante, è verista. Prova ne sia che il Vono è stato l’UNICO sulla faccia della terra ad esaltarsi davanti al baccano informe impresso all’Olandese scaligero da un direttore, tale Haenchen, collega di Geppetto e San Giuseppe. Il fatto è che – salvo cadere in contraddizione per quel certo gusto snob da bastiancontrario – il Vono, quando ascolta, l’opera dell’800 – non importa di quale decade di tale secolo – vuole l’URLO e il BOATO che gli titillino l’esofago: altrimenti non gode. Quanto alle considerazioni sulla regia di Oberto, rimando ulteriormente a quelle fornite dal Vono quanto al “capolavoro” di Homoki nell’Olandese, perchè si capisca l’attendibilità. Da tali elucubrazioni si desumeva che tutti coloro (cioé: TUTTI) che trovarono IDIOTA tale spettacolo…. non avevano capìto. Solo il Vono aveva compreso la genialiità della cartina dell’Africa, dello zulù con la lancia, delle segretarie sceme. Solo il Vono aveva capìto – certo c’era uno schermo, con onde di mare – che la scena si svolgeva in un GENIALE interno di nave. Così come, in occasione di questo Oberto, solo Vono (non Foletto, non Giudici, non altri) ha capìto quanto squallida fosse la direzione (ottima) di Frizza, quanto ovvia la (ottima) regia di Martone. Siamo grati a Vono che ci illumina della sua sapienza, fino alla prossima (questione di ore) contraddizione.
marco vizzardelli
Ahimè, il delirio non si contiene. Sfido chiunque nel mio post dedicato a cogliere un giudizio “geniale” sulla regia di Homoki. Purtroppo la volontà di Vizzardelli di leggere ciò che vuol credere è la stessa sia di quando legge un post, sia di quando vede un’opera. Da qui derivano, a volte, i suoi commenti o le sue stroncature.
Ciao
-MV
P.S. Mai definita “squallida” la direzione di Frizza. Al massimo “pallida”. Invece la regia di Martone sì, è abbastanza ovvia. Un cliché di Martone (vedasi Pagliacci).
Ricordo a Vono che quanto da me scritto su Oberto ha trovato riscontro puntuale su almeno tre giornali. Ma è evidente che, per Vono, non solo Vizzardelli, ma Foletto, Girardi e Giudici sono tutti e tre sordi e ciechi. Solo Vono vede e sente e ci illumina con la sua sapienza. Ci inchiniamo, grati, suggendo il miele della voniana sapienza (ih, ih).
marco vizzardelli
E non è finita qui. A breve – minuti – avremo una nuova colata di nettare di sapienza di Vono. Eccola, sta arrivando: trattenete il fiato.
marco vizzardelli
Ma non fate così, ognuno ha le sue idee, l’importante è esprimerle in buona fede, si può anche sbagliare in assoluto, anche se qui siamo sempre nel campo delle opinioni, quindi ci vorrebbe altro che un giudice (non un Giudici, hi hi!) a Berlino, non ci sono leggi che stabiliscano chi a torto o ha ragione se si critica uno spettacolo, un’esecuzione, un’opera d’arte o un’opera letteraria. Solo la malafede patente è da combattere (ad es. quella di Isotta tanto per capirci!). Nella fattispecie io sono più d’accordo con Vono che con Vizza stavolta, non mi importa che la critica sia stata concorde nelle lodi; l’idea registica non è certo originale, ma questo poteva anche passare, ma c’era un tale scollamento fra il testo e la scena, fra i personaggi del libretto che parlavano un linguaggio ottocentesco (e non medioevale, questa è già una trasposizione) assolutamente desueto e quello per cui sul palcoscenico li si voleva far passare (cioè da contendenti di camorra) che la cosa non reggeva. Non sempre l’idea pensata a tavolino e apparentemente giusta regge alla prova dei fatti; semplicemente qui non reggeva, dove invece a me era parsa magnifica e geniale ad esempio la Cavalleria di Martone (e anche i Pagliacci, se pure con minor convinzione, ma certamente erano meglio costruiti di questo Oberto). Baci baci Attilia
Ma sì, Attilia. L’idea regge. Ma il problema è non presentarla come se fosse il *non plus ultra*. E’ una regia di puro “clichè” martoniano, tanto che, tolta la casa del mafioso, il parcheggio-discarica è lo stesso dei Pagliacci, monnezza più monnezza meno. Roba rivista, e quindi “trita”. Poi se ad altri piace indossare i panni di Vestali lo facciano. Per rimanere a Martone la sua regia di Cavalleria (non di Pagliacci!) è un capolavoro, questa di Oberto è da “minimo sindacale” privo di fantasia.
Ciao
-MV
Eccola: parlando con Vizzardelli…(cioè, non parlando. Vizzardelli parla, l’interlocutore può soltanto ascoltare..) mi è venuta un’idea da proporre a tutti gli illuminati da proporre all’ Italiano Di Cui Andare Fieri Martone: critici, dirigenti Scala ecc. La prossima sua regia sia Rigoletto. E’ già tutta pronta. Oggi si chiama Oberto, domani Rigoletto. Abbiamo la festa in casa di un Duca capomafia, uno dei suoi accoliti col paltò beige Rigoletto, la Gilda un po’ rozza e arricchita, la Maddalena già in abiti perfetti. Per Sparafucile ci sono sgherri con fucili a sufficieza, ne prendiamo uno a caso. Quando si sposta la casa con la Madonna (è un Duca naturalmente Mafioso nei pressi di Zafferana Etnea) è già bello pronto il campo di rifiuti “made in ” Pagliacci, riciclato in Oberto e già pronto per l’uso da “fogna a cielo aperto” di nuovo Mincio.
Ah, questi Italiani Di Cui Essere Fieri…pensate a quante scenografie e costumi risparmiati. AAAAHHHH!! Che sospirone!
Bye Bye
-MV
Vono non concepisce che un regista possa avere un proprio cammino coerente (è quanto sta facendo Martone: se non erro Vono apprezzò alquanto Pagliacci e Cavalleria) e che, quindi, a questo sia funzionale anche l’autocitazione. Non ho ancora ben capìto quale sia l’estetica voniana di regia d’opera, in quanto muta continuamente contraddicendosi secondo l’irresistibile stimolo ventrale del nostro a fare il bastian contrario. Una “posa”. Quanto alle direzioni d’orchestra, Vono sponsorizza il Verdi giovane a tinte forti di un Levine o di un Sinopoli fino a quando non approda all’Opera di Roma e scopre che Nabucco sarebbe un composto, nobile oratorio (mah….) lanciandosi estatico, insieme al Popolo italiano ivi riunito, nel canto di Va Pensiero.
La realtà è che l’autentica “estetica” voniana è: fare il bastian contrario.
Comunque Attilia non ti preoccupare: dar torto a Vono è una delle occupazioni più divertenti della vita, così come per Vono lo è dar torto a me. Mi preoccupa questo continuo anelito voniano all’urlo e al boato – che dovrebbe connotare tutto il Verdi giovanile, salvo Nabucco che, come tutti sanno, è – me lo ha insegnato Vono – un garbato oratorio (davvero oratoriale, la parte di Abigaille, davvero oratoriale il finale 1, la sinfonia stessa prelude chiaramente ad un composto, educato oratorio). Non vorrei che tale esigenza di boato fosse dovuta ad un incipiente sordità
marco vizzardelli
La regia di Cavalleria di Martone fu un capolavoro. Non quella di Pagliacci, tutto sommato ordinaria. La regia deve essere *nuova* (primo requisito), con movimenti scenici (si definisce regia appunto quella dei movimenti, altrimenti abbiamo una scenografia e dei costumi SENZA regia), che teatralmente STIA IN PIEDI (ovvero: Carsen che fa cercare Falstaff nei cassetti delle posate NON STA teatralmente in piedi). Dove sia ambientata, in quale epoca e con quali costumi mi è INDIFFERENTE, purchè rispetti il punto uno, ovvero sia NUOVA. Se una regia mi propone dei CLICHE’ (che non sono un percorso, ma sono appunto il contrario di un percorso, l’ARRESTO DI UN PERCORSO), anche se funziona, non mi fa gridare al miracolo perchè l’ho già vista. Oberto di Martone l’ho già visto. Si chiamava Pagliacci di Martone.
Sicuramente il Nabucco di cui parli, dal punto di vista musicale, era straordinariamente meglio concepito di questo “sciapo” Oberto. E non era un oratorio rossiniano o belliniano. Le sonorità erano piene, i contrasti accentuati. L’aspetto più, diciamo così, religioso/contemplativo, da cui la parola “oratorio” era data da una propensione di Muti a rallentare i tempi rispetto al passato, che non significa perdere in teatralità.
Ma ormai Vizzardelli vede in ogni casa arredata stile “Scarface”, in ogni rappresentazione di qualcosa di mafioso, in ogni donna stivalata con autoreggenti o meno la rappresentazione del suo Incubo di Arcore con relative Olgettine e, naturalmente, tutti coloro che glielo ricordano (ma questo nesso è solo nella sua testa, a scanso di equivoci!) dei genii che mettono in scena il Dramma Italiano.
BAH!
-MV
Ecco dove voleva arrivare, Vono, ecco cosa ha percepito!
Io non ci ho visto nessun Arcore e nessuna Olgettina né ne ho fatto alcun cenno. Neanche ci avevo pensato. MA VONO SI’ CHE CE L’HA VISTA, SI’ CHE LO HA PENSATO!!! Ora tutto è chiaro! Il solito Vono. Il solo dubbio che c’entri Arcore gli è insopportabile. Ma ce l’ha vista solo lui. Un fissato.
marco vizzardelli
Immagino che vi stiate divertendo, voi due, con questa finta tempesta in un bicchier d’acqua.
E’ vero che Leonardo scrisse che “le acque grandi de’ gran diluvi fanno le medesime rivolutioni ne’ lor casi che fan l’acque piccole”, ma voi in mezzo bicchiere d’acqua ci sguazzate!
Sono stato all’Oberto e la regìa secondo me “ci sta” e non è la stessa cosa dei Pagliacci. I mafiosi mi sono sembrati più siciliani che napoletani o calabresi e la scena “elegante” mi ricorda vagamente la hall dell’Hotel delle Palme di Palermo, frequentato anche da Wagner, dove i mafiosi nel dopoguerra facevano tranquillamente i loro summit bevendo champagne Crystal, tanto nessuno andava a dargli fastidio (come è noto per la DC di allora la mafia non esisteva).
Il mio giudizio è positivo anche per l’esecuzione musicale.
Di movimento in scena Martone ne ha fatto fin troppo, i personaggi, oltre al coro, sono quattro più una quasi-comparsa (Imelda) e trovo irritanti tutti i movimenti superflui inventati senza alcun rapporto con l’opera (vedi i mimi e i bambini del Ring e del Don Carlo ultimi).
Non credo che Vizza abbia pensato al bunga-bunga, ma se ci fosse un’opera da ambientare ad Arcore, con una regia ispirata alla “Mort de Sardanapale” di Delacroix, io e lui ci divertiremmo sicuramente (e Dio sa di quanto umorismo abbiamo bisogno per dimeticare almeno per una sera lo squallore dell’Italia di oggigiorno).
Sto per assistere all’Oberto: avendo ascoltato alla radio il second’atto, ho decido di andarci.
Pertanto non mi sono ancora fatta un’idea. Quel che è certo è che scrivete benissimo.
Mi dicono che la scena del salone con le scalinate dell’Oberto riproduce esattamente un ambiente mafioso che non è quello da me immaginato, ma una scena di Scarface, il noto film sulla mafia di Brian De Palma con Al Pacino. Ho visto qualche scena su You Tube ed è vero. L’Hotel delle Palme di Palermo ha uno stile molto diverso e più monumentale.
In effetti ai tempi di Don Calo’ Vizzini la mafia siciliana aveva più classe…