Concerti
Stagione della Filarmonica della Scala
2013,
11
febbraio ore 20:00 |
Milano, Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Tenore Joseph Calleja
Giuseppe Verdi
Nabucco, Sinfonia Ernani: “Odi il voto” Alzira, Sinfonia Attila: “Oh, dolore” Giovanna D’Arco, Sinfonia I due Foscari: “Si, lo sento, Iddio mi chiama”<
Giuseppe Verdi
Les Vêpres Siciliennes, Sinfonia Les Vêpres Siciliennes: “A toi, que j’ai chérie” Les Vêpres Siciliennes, Ballabili
Seguire i concerti alla Scala dalle gallerie è scelta nettamente migliore che starsene in platea. Sia sotto l’aspetto dell’acustica che sotto quello del costume. Il momento di gran lunga più divertente del concerto di Chailly è giunto… a concerto concluso, al momento degli applausi, quando una nota melomane, di solito immancabile in loggione ma stavolta posizionata in un palco di quasi proscenio di prim’ordine a destra del palcoscenico, ha avuto l’idea di omaggiare il Maestro. La signora, che in quanto melomane molto pia, e per via d’acconciatura e abbigliamento, chiameremo la Madre Badessa del Teatro alla Scala, ha dato vita dal palco ad un ripetuto lancio di compatti mazzetti di fiori. I quali mazzetti, data la distanza dal podio, hanno “sorvolato” solo le file di contrabbassi e violoncelli, per finire – uno dopo l’altro, con matematica precisione – compatti e diritti in testa alla viola Checco Lattuada, o ben che andasse ai suoi piedi, suscitando l’attonita reazione del medesimo Lattuada, che avrà pensato all’omaggio personale di una ignota ammiratrice!
A parte l’aneddoto (verissimo) di costume, per narrare il concerto ci rifaremo ad una recente “vocalizzazione”, proposta in materia d’interpretazione verdiana da un noto personaggio dell’attualità scaligera e milanese.
A
AA
AAA
Non si tratta, come sembrerebbe, delle valutazioni di merito di una guida turistica di bed & breakfast inglesi, ma di quelle riservate ai direttori che affrontano la musica di Verdi dal podio del Teatro alla Scala, dal consigliere d’amministrazione dell’Orchestra Filarmonica, Francesco Micheli. Che ne ha fatto uso, fra l’altro (direttori non da tre A) per criticare (ma l’avrà ascoltato?) il “Va Pensiero” cantato dal coro scaligero del M° Casoni, diretto da Nicola Luisotti nel Nabucco in scena in questi giorni alla Scala. Il Micheli ha letto il Corriere della Sera e si è impossessato di un giudizio per farne strumento di polemica. Avesse letto altro, e avesse ascoltato più d’una replica di quel Nabucco, saprebbe che, proprio il “Va Pensiero”, nella commossa, commovente esecuzione datane dal mirabile coro scaligero nella lettura per nulla banale dell’ottimo Luisotti, ha sì, “peccato” alla “prima” di un’istante d’eccesso d’emozione ma è, alle repliche, una meraviglia!
E, a proposito di AAA, AA, e A, occorre dire che la sorte fa sì che l’orchestra scaligera esegua la Sinfonia del Nabucco, a pochi giorni di distanza, sotto la direzione di Nicola Luisotti prima, di Riccardo Chailly poi.
Abbiamo udìto, in teatro, entrambe le esecuzioni e letture: ebbene, ascoltare la splendida Sinfonia del Nabucco nella lettura del Luisotti, è come stare a bordo di una rossa Ferrari lanciata con bravura acrobatica da un Alonso del podio capace di dare al passeggero (l’ascoltatore) tutto il “brivido” di una musica da formula 1 (o da tre A): canto, colori a profusione, slancio acrobatico del finale marziale. Riascoltarla nella lettura del Chailly, è stato come salire su una berlina nera al cui volante un autista, affidabilissimo ma un po’ attempato, scarrozza con prudente e un po’ pedante maestria il suo “cumenda”, magari un Micheli, fino alla Scala o in banca.
Riccardo Chailly è, oggi, un affidabile direttore “di mestiere”. E come tale si è mosso nel concerto verdiano, alla Scala. Che, perso per strada il tenore Calleja (che avrebbe dovuto far rivivere, con Chailly, più o meno un programma inciso a suo tempo da Claudio Abbado con Luciano Pavarotti), si è trasformato in un “centone” di brani strumentali “da opere” già materia di un recente CD di Chailly & Filarmonica della Scala. Uno spot per il disco.
Ma torniamo alle “A”. Quante attribuirne, al concerto ascoltato alla Scala? Mah. Diciamo che la valutazione più alta spetta, ad avviso di chi qui scrive, alle “Arie di balletto” della Jérusalem, nel quale alla elegante lettura di Chailly ha corrisposto una buonissima prestazione dell’orchestra scaligera (che, in Italia, ha davanti a sé, sul piano “sinfonico”, l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, ma – per dirla in termini sportivi – stacca di molte lunghezze, nonostante il problema d’una sezione ottoni non pari ad archi, legni e percussioni, tutte le altre orchestre d’opera, eccettuata forse quella del Maggio Fiorentino, istituzione in gravi difficoltà).
Molto curata – ma al limite di una certa capziosità e con tempi talora rilassati – anche l’esecuzione delle “Stagioni” dai Vespri Siciliani.
Dove il Verdi di Chailly mostra la corda di un mestiere, lodevole fin che si vuole, ma privo di una avvincente freschezza d’interprete (quella che – magari con qualche eccesso di esuberanza, ma con notevole talento – connota il Nabucco di Luisotti) è proprio nelle Sinfonie celeberrime, estratte qui dalle opere. Delle quali, da – diciamo – “AA e mezza” (due A e mezza), era, senz’altro, quella della Forza del Destino concessa come bis: esecuzione serrata, asciutta, ma anche lirica, con la fughetta conclusiva condotta a tempo equilibrato. Non quella dei Vespri Siciliani, piuttosto sciatta e anche “vittima” d’un finale fragoroso e volgarotto nell’uso degli ottoni. Neppure quella della Giovanna d’Arco: opera che, di Chailly fu – fin dagli anni giovanili a Bologna – un cavallo di battaglia. Opera dalla strumentazione quanto mai ardita (a partire proprio dalla Sinfonia) che dal Chailly giovane (e spesso dedito alla musica del ‘900) trovava lettura, per l’appunto, “sperimentale” e infuocata, della quale, oggi, v’è poco segno. La saggezza dell’età? Può pure darsi, ma è una saggezza nella quale fa capolino una, sia pur professionalissima (su questo piano, Chailly è a prova di bomba: professionale al 100%) routine. Che poco si attaglia alla Sinfonia – “estrema”, sperimentale – di un’opera fra le più ardite, sul piano strumentale (ci viene alla mente “cosa” fece, ed è consegnato al disco, di Giovanna d’Arco un James Levine. Ma anche la lettura di Karajan, della Sinfonia).
Come nell’ancor recente Aida eseguita alla Scala, il Verdi di Chailly “cammina” fra gli estremi d’una certa tendenza al boato (siamo usciti con i colpi di piatti che ci rimbombavano nelle orecchie: tanti, in una sera sola!) e di una compassata nobiltà. Il tutto, sconfinante nel “balenare”, al fondo, di una certa “convenzionalità” e, per l’ascoltatore, di una “punta ” di noia (che qualche affidabile appassionato di lunga data e abbonato alla Filarmonica ci ha confessato d’aver provato). Lo “scatto” da una parte, la freschezza del canto dall’altra, non si sentono quasi più. Restano, indubbi, il grande mestiere e la professionalità. Ma, complessivamente, non ci è parso un Verdi “AAA”.
marco vizzardelli
Avendo citato le attuali orchestre d’opera, mi accorgo di un torto assolutamente involontario e frutto di dimenticanza: la cresciutissima orchestra de La Fenice di Venezia (“teatro modello” in molti sensi: fra l’altro, programmazione 2014 già nota) ha ormai – così come l’ho ascoltata l’estate scorsa in Carmen ed Elisir d’Amore e lo scorso autunnno in Otello e Tristano – un posto di spicco fra quelle delle istituzioni liriche italiane. Non riconoscerlo, avendola per l’appunto più volte ascoltata in tempi recenti, sarebbe palese ingiustizia.
marco vizzardelli
Se si eseguono – soprattutto in concerto – “cose” celeberrime come le Sinfonie di Nabucco e Vespri, o della medesima Giovanna d’Arco, bisognerebbe, da parte di un direttore “di razza” accenderle di una freschezza che (a mio parere, sia chiaro: non pretendo di esprimere verità assolute) Riccardo Chailly ha “annacquato” nella convenzionalità d’un ben noto mestiere. Il che mi sembra ne connoti un po’ tutta l’attività svolta alla Scala negli ultimi anni, da Aida, al Trittico ai concerti. Cito il Trittico perché Puccini è sempre stato autore d’elezione, per Chailly, che in gioventù ne ha dato letture magnifiche per analisi del linguaggio: ecco, mi sembra che proprio questa forza, nell’attuale Chailly, abbia lasciato posto ad un tranquillo (ancorché indubbio) mestiere: fa e vende i suoi dischi, divulga, ma l’interprete mi sembra – in generale – essersi un po’ “seduto” sul mestiere. Due le “spie” d’ascolto: da un lato una certa monocromia; dall’altro, quando il gesto chiede lo “scatto” (che in certo Verdi è, talora, essenziale), non lo ottiene più (in questo concerto, solo, in parte, nella Sinfonia della Forza del Destino).
marco vizzardelli
C’era ampiamente da aspettarselo, perché già sulla carta prometteva: il concerto Vivaldi-Piazzolla (Quattro più Quattro stagioni), proposto questa settimana dall’orchestra Verdi,, Jader Bignamini sul podio, Natasha Korsakova al violino, è, nell’esito, forse il più bello di tutto l’inverno milanese. Un tripudio di bellezza. Bello Vivaldi, bello Piazzolla, belli loro due, il direttore e la solista: lui il gesto, i modi, l’eleganza ma soprattutto il SUONO. Lei è già da sogno quando appare, elegantissima nell’abito nero con spacco vertiginoso (che non sfugge al primo sguardo del direttore all’arrivo sul podio). Ma è ancor meglio quando suona, soprattutto Piazzolla, ove gioca la carta della sensualità. Meno interessante, infatti, il Bach del bis da solista, dopo la replica favolosa del Largo dell’Inverno vivaldiano. Anche se Bach, dopo Vivaldi e Piazzolla, va benissimo: come un Dio che li guardi entrambi.
Gli strumentisti della Verdi (favoloso il dialogo ad eco fra il primo violino Santaniello e la Korsakova all’inizio della Primavera vivaldiana) suonano, per tutta la sera, meraviogliosamente. Un Vivaldi a tutta luce, un Piazzolla che da Vivaldi prende e cita i lampi di luce veneziana, ma li ricopre di ombre, screziature di colori, sensualità “ispanica” del tango, malinconia del Sud. Ho ascoltato il recente disco di uno dei complessi filologici più gloriosi (non faccio il nome) che ha inciso i concerti per mandolino e strumenti varii di Vivaldi, e ho colto un rischio: che la filologia – che dall’immenso Harnoncourt in poi ci ha dato nuovi, e spesso entusiasmanti, orizzonti di ascolto – si involva nel clichè di se stessa, ripetendosi, ovvero sempre lo stesso Vivaldi “furente” e meccanico. Attenzione: proprio Harnoncourt è già andato molto oltre. Qui, Bignamini e Korsakova scelgono, e trovano benissimo, un Vivaldi vivo, fremente vivissimo, terso nel suono (è il suolo luminoso caratteristico del giovane direttore, così come lo stiamo conoscendo volta a volta) ma non arcigno nella scansione, il vibrato è economizzato ma c’è. E poi, anzi assieme, c’è Piazzolla: la meraviglia dei rimandi, delle citazioni lessicali (cosa non è quella del cembalo, “appesa” alla fine dell’autunno-primavera!) e dell’originalità straordinaria d’una musica che avvince ed affascina per se stessa. Due emisferi, due mondi e le rispettive stagioni si guardano, si toccano, dialogano, a tratti forse si fondono (ma merito di Bignamini è non avvicinare arbitrariamente Vivaldi a Piazzolla, li esegue facendoli restare loro stessi). Nell’immediato, sembra “uscire” di più, alle orecchie di chi ascolta, la musica di Piazzolla, eppure l’esito forse massimo – e sbalorditivo – di tutto il concerto, è l’Inverno di Vivaldi: il “ghiaccio” del movimento inziale di Bignamini e Korsakova è una lastra bianca che non si dimentica : fuori dall’Auditorium, a Milano, nevica.
marco vizzardelli
C’era ampiamente da aspettarselo, perché già sulla carta prometteva: il concerto Vivaldi-Piazzolla (Quattro più Quattro stagioni), proposto questa settimana all’Auditorium dall’Orchestra Verdi, Jader Bignamini sul podio, Natasha Korsakova al violino, è, nell’esito, forse il più bello di tutto l’inverno milanese. Un tripudio di bellezza. Bello Vivaldi, bello Piazzolla, belli loro due, il direttore e la solista: lui il gesto, i modi, l’eleganza ma soprattutto il SUONO. Lei è già da sogno quando appare, elegantissima nell’abito nero con spacco vertiginoso (che non sfugge al primo sguardo del direttore all’arrivo sul podio). Ma è ancor meglio quando suona, soprattutto Piazzolla, ove gioca la carta della sensualità. Meno interessante, infatti, il Bach del bis da solista, dopo la replica favolosa, con la Verdi e Bignamini, del Largo dell’Inverno vivaldiano. Anche se Bach, dopo Vivaldi e Piazzolla, va benissimo: come un Dio che li guardi entrambi.
Gli strumentisti della Verdi (bellissimo il dialogo ad eco fra il primo violino Santaniello e la Korsakova all’inizio della Primavera vivaldiana) suonano, per tutta la sera, meravigliosamente. Un Vivaldi a tutta luce, un Piazzolla che da Vivaldi prende e cita i lampi di luce veneziana, ma li ricopre di ombre, screziature di colori, sensualità “ispanica” del tango, malinconia del Sud. Ho ascoltato il recente disco di uno dei complessi filologici più gloriosi (non faccio il nome) che ha inciso i concerti per mandolino e strumenti varii di Vivaldi, e ho colto un rischio: che la filologia – che dall’immenso Harnoncourt in poi, attraverso una miriade di musicisti e complessi strumentali di valore ci ha dato, e ancora ci dà, nuovi, e spesso entusiasmanti, orizzonti di ascolto – si involva talora nel clichè di se stessa, ripetendosi, ovvero sempre lo stesso Vivaldi “furente” e meccanico. Attenzione: proprio Harnoncourt, per primo, è già andato molto oltre l’approccio “duro e crudo”. Qui, Bignamini e Korsakova scelgono, e trovano benissimo, un Vivaldi vivo, fremente vivissimo, terso nel suono (è il suono luminoso caratteristico del giovane direttore, così come lo stiamo conoscendo volta a volta) ma non arcigno nella scansione, il vibrato è economizzato ma c’è. E poi, anzi assieme, c’è Piazzolla: la meraviglia dei rimandi, delle citazioni lessicali (cosa non è quella del cembalo, “appesa” alla fine dell’autunno-primavera!) e dell’originalità straordinaria d’una musica che avvince ed affascina per se stessa. Due emisferi, due mondi e le rispettive stagioni si guardano, si toccano, dialogano, a tratti forse si fondono (ma merito di Bignamini è non avvicinare arbitrariamente Vivaldi a Piazzolla, li esegue facendoli restare loro stessi). Nell’immediato, sembra “uscire” di più, alle orecchie di chi ascolta, la musica di Piazzolla, eppure l’esito forse massimo – e sbalorditivo – di tutto il concerto, è l’Inverno di Vivaldi: il “ghiaccio” del movimento inziale di Bignamini e Korsakova è una lastra bianca che non si dimentica : fuori dall’Auditorium, a Milano, nevica.
marco vizzardelli